DALL’IDEA DI BUSINESS AL DISPOSITIVO PRAGMATICO
In un centro d’eccellenza come TEC Eurolab – sempre
pronto ad acquisire le ultime novità nelle tecnologie dei controlli non distruttivi,
per garantire alle principali case automobilistiche e ai maggiori gruppi
aerospaziali e industriali un supporto completo lungo l’intera catena della
fornitura – i dispositivi dell’impresa sono innumerevoli e sono esposti a una
trasformazione incessante.
Può raccontare qualche aneddoto che illustri il processo
che va dall’idea di business al dispositivo pragmatico? Nei casi in cui
l’azienda è governata da una sola persona, può bastare un solo passaggio
dall’idea all’instaurazione dei dispositivi che occorrono per metterla in
pratica.
Nelle imprese più strutturate, invece, un’idea che risponde
a un’esigenza o rappresenta un’innovazione può essere discussa da poche persone
oppure all’interno di un comitato, di un board, di una struttura che deve approvarla
o semplicemente dare un parere. Molto spesso, l’idea parte da una persona che
ne avverte la validità e vuole portarla avanti, ma, siccome ha bisogno del
sostegno o del lavoro di altri, deve trovare il modo per coinvolgerli nelle
discussioni, accettarne osservazioni ed eventuali suggerimenti di modifiche al
percorso, sempre però proteggendo la propria idea, anche a costo di perderne la
paternità, e lasciare che divenga un’idea che il gruppo sente come propria. Le
idee che vengono assunte dall’azienda nel suo complesso sono quelle che hanno maggiori
opportunità di giungere alla riuscita perché ciascuno si sente coinvolto e
s’impegna senza riserve nel raggiungimento dell’obiettivo.
Altre volte, invece, si è costretti a forzare l’idea e
intanto incominciare da soli, perché gli alleati si trovano soltanto dopo avere
raggiunto i risultati: “Vedete che funziona? Siamo arrivati a dieci, ma, se mi
date una mano, forse riusciamo ad arrivare a venti”.
Certo, più aumenta il livello strategico, la complessità
dell’idea, e più diventa imprescindibile che siano in molti a farla propria.
Questo stato di cose può passare sotto il nome di gioco di squadra, che può
essere considerato una tendenza, una filosofia o un approccio, ma in realtà è una
necessità, è il modo più pratico e più efficace per instaurare dispositivi che
contribuiscano a portare a compimento un’idea di business.
Nella nostra azienda, a volte, ho trovato immediatamente la
convinta partecipazione dei collaboratori o dei soci, perché era qualcosa che
era maturato da tempo, a cui pensavano anche loro, anche se nessuno ne aveva
parlato prima. Qualcosa di simile è avvenuto ad agosto 2012, quando ho deciso
d’invertire drasticamente la rotta del nostro viaggio: anziché dislocare la
nostra attività in altre regioni, acquisendo laboratori avviati – pensai –,
concentriamo gli investimenti sulla nostra sede per offrire servizi a livelli
talmente distintivi che saranno i clienti a cercarci, perché li troveranno
soltanto qui. Questa decisione è maturata mentre stavo per firmare la cessione dell’azienda
e il mio socio mi aveva dato mandato mentre era in vacanza. Sfido chiunque altro
a sostenere che era una cosa a cui avevamo pensato e stavamo discutendo da
tempo. Non è vero: avevo la penna in mano, sarebbe bastato poco per decretare
la fine di un’avventura e, invece, in un istante, ho capito che le cose da fare
erano ben altre, che bisognava introdurre una rivoluzione. Con me non c’era nessuno,
ero da solo di fronte a sette legali che rappresentavano la ditta acquirente tedesca,
eppure, appena sono tornato in azienda e ho comunicato la mia decisione, ho
trovato mille alleati. E c’è stato un gioco di squadra straordinario: ricordo
solo come il mio socio è riuscito a portare a pareggio il laboratorio di
Maniago, che era sempre in perdita, in modo da trovare un acquirente; oppure l’impegno
di Andrea Scanavini e Silvia Bressan che sono entrati in Cda e, insieme,
abbiamo fatto i salti mortali per chiudere il laboratorio che avevamo aperto a
Shanghai, senza rimetterci ulteriori risorse economiche.
A volte, trovi gli alleati così, come per magia, altre
volte, invece, sei costretto a proteggere la tua idea dall’estinzione e a
insistere controcorrente, cercando una via perché possa affermarsi ed essere
portata a compimento. È il caso della tomografia: eravamo nel 2013, in piena evoluzione
della svolta che avevamo introdotto l’anno precedente, quando un ex dipendente
mi parlò di questa nuova tecnologia, che ancora nessun laboratorio offriva in
Italia. Mi sembrava interessante, per cui incominciai a chiedere pareri a
esperti esterni all’azienda, ma tutti mi sconsigliavano perché lo consideravano
un investimento troppo rischioso. Documentandomi ulteriormente, capii che
invece occorreva portarla in azienda. Purtroppo, la prima volta che ne parlai,
non trovai nessun alleato, a cominciare dal mio socio, che era molto scettico.
In seconda battuta, fu considerata una questione che avrebbe
dovuto seguire il nostro responsabile tecnico, Andrea Scanavini, che stava difatti
guidando l’evoluzione tecnica dell’azienda. In quell’occasione, però, delegò la
ricerca a un commerciale di fresca nomina, anch’egli ingegnere, che non aveva
una gran fretta di occuparsene: incontrò una delle più grandi case costruttrici
di macchine tomografiche ma senza darsi troppo pensiero di avviare un confronto
con altre case. Tutto andava a rilento, mentre io ero stato escluso. Capivo che
la cosa stava morendo lì, ma da solo non sarei riuscito a sbloccare la
situazione.
Allora, il caso volle che mio figlio Marco stesse per conseguire
la laurea magistrale in Ingegneria meccanica e, nonostante dichiarasse di non
essere interessato a entrare in azienda come semplice successore, gli chiesi di
prendere in mano questa ricerca. Così, incominciò a visitare i più importanti
produttori di macchine tomografiche in Europa e negli USA, finché non trovò la
migliore offerta sul mercato fra quelle più adatte alle nostre esigenze.
Intanto, avevo proposto una fonte di finanziamento interna dell’operazione, che
riscosse l’entusiasmo generale: vendere il settore di metrologia e taratura
strumenti di misura, che tutti consideravano settore strategicamente disallineato
rispetto ai nuovi obiettivi aziendali. A quel punto la situazione si era
sbloccata.
Tra parentesi, quando abbiamo chiesto le offerte alle
aziende che avevamo visitato, l’unica che non ha considerato la nostra
richiesta è stata la grande multinazionale dove si era recato il commerciale,
tanto vaga era stata l’impressione di fare le cose sul serio che aveva
rilasciato.
Si può immaginare lo sgomento quando i dirigenti di
quell’azienda appresero che dai loro uffici non era neppure partita un’offerta
per la vendita dell’unica macchina di tomografia industriale installata in Italia
all’epoca.
Intanto, in azienda, man mano che i risultati superavano
ogni previsione, tutti diventavano “papà” della tomografia, e oggi non c’è
persona che lavora in questo settore che non vanti il proprio contributo alla riuscita
per un aspetto o per l’altro.
Ed è vero, hanno ragione, in tanti hanno contribuito, io da
solo non avrei potuto fare nulla.
Era stato l’investimento più grande mai fatto in azienda
fino a quel momento e aveva richiesto un processo decisionale articolato.
Cosa che non è accaduta quando, l’anno scorso, abbiamo
proposto di acquistare un acceleratore lineare, una macchina molto più potente
e costosa: sulla scia del successo del primo investimento, uno di importo più
che doppio è sembrato quasi un seguito naturale e condiviso da tutti. Non
voglio dire che sia stato fatto a cuor leggero: in aprile prossimo, saremo
l’unico laboratorio conto terzi in Europa ad avere una macchina di quella
portata, quindi ancora una volta un’innovazione straordinaria, e spero che le
aziende, non solo italiane, sappiano sfruttare l’opportunità di avere a
disposizione un simile strumento, utilizzato da ingegneri con un’esperienza e
una professionalità di altissimo livello nel settore della tomografia
industriale.
Lei dice che non bisogna mai cantare vittoria? L’allenatore
Julio Velasco, in un’intervista di Walter Veltroni, a proposito del modo in cui
si dovrebbe gestire una vittoria, diceva che è qualcosa che tu hai ottenuto in
quel momento, contro quell’avversario, che era in quelle condizioni, mentre tu
eri in quelle condizioni, ma non è detto che domani tutti questi fattori si
ripetano. Quindi, dalle vittorie bisogna trarre entusiasmo per rilanciare la
scommessa, ma non si può basare la prossima partita sulla vittoria precedente.
Credo che questo ragionamento si applichi molto bene anche all’impresa.
Inoltre, se per mettere in pratica un’idea di business
s’instaura un dispositivo, dobbiamo considerarlo sempre nel contesto in cui è
nato e non avere timore di metterlo in discussione se due anni dopo cambiano le
condizioni e dobbiamo inventare un nuovo dispositivo, più adatto alle esigenze
del momento. Anche se magari c’è chi si lamenta: “Ah, ma due anni fa la pensavi
diversamente”. Due anni fa, appunto. Oppure c’è chi si rammarica perché “Non
siamo più quelli di una volta!”. Per fortuna.
Quindi, applicare nuovamente un dispositivo che ha avuto
successo non è detto che funzioni. Forse sì, forse no. Il processo che va
dall’idea ai dispositivi per metterla in pratica richiede tanti passi, tappe e
fasi. Per non parlare del processo intellettuale che vive chi ha avuto l’idea: soltanto
un pazzo fa quello che gli viene in mente, senza prima vagliare l’idea,
metterla alla prova della ricerca, delle obiezioni, dei pareri, delle
discussioni, e soprattutto senza prima documentarsi nei dettagli.
Se vuole ottenere che la sua idea diventi l’idea condivisa,
l’idea della squadra, il leader deve prepararsi, approfondire, studiare, sì,
studiare.
Deve saper rispondere alle domande che gli verranno poste.
Perché se l’idea passerà il vaglio dei suoi collaboratori, che verosimilmente avranno
maggiori competenze verticali, e diventerà l’idea della squadra, acquisirà una
forza straordinaria che ne moltiplicherà le probabilità di successo.