LA SCIENZA DELLA PAROLA E LA MEDICINA
Lei ha incominciato la sua pratica clinica come
psicanalista a Göteborg nel 1982. Da allora, ha instaurato dispositivi di
parola con psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e medici che lavorano nel
pubblico e nel privato, oltre che con persone che hanno problemi di salute
anche ritenuti gravi o altre a cui sono stati diagnosticati i cosiddetti
disturbi mentali. Che tipo di dispositivi instaura? Può fare qualche esempio? Nella
mia pratica clinica mi avvalgo di quelli che la cifrematica chiama dispositivi
intellettuali. Alle persone che incontro propongo un’esperienza ispirata a ciò
che Armando Verdiglione indica come esperienza della tripartizione, articolata
in conversazione, narrazione e lettura. In realtà, non è qualcosa che propongo in
modo diretto perché prendo spunto dal materiale che ciascuno porta nella conversazione,
ma do un orientamento intorno alla ricerca e alle letture da fare e do un
contributo affinché ciascuno trovi il modo d’intervenire con la parola nelle
questioni pratiche che sta affrontando nella vita, rispetto alla cura che sta
seguendo o alla sua relazione con i medici o con le istituzioni.
Così lei diventa un interlocutore prezioso, per esempio
quando, dinanzi alla diagnosi di una patologia grave, una persona passa da un
medico all’altro senza capire quale cura intraprendere. Il dispositivo di
parola consente di analizzare anche ciò che dicono i medici...
Vorrei riprendere il tema che mi è stato dato per il mio
intervento in Italia Medicina e comunicazione.
L’apporto della scienza della parola, la cifrematica, nel
dispositivo medicopaziente, e affrontare l’argomento partendo dalla
questione del coinvolgimento dei medici: nella mia pratica ho a che fare con i
medici sia come clienti sia indirettamente, quando qualche mio cliente si
rivolge ai medici per curarsi, oppure nei casi in cui qualche mio cliente
psicologo è impegnato nella formazione dei medici. Ho tante occasioni e tanti
modi d’incontrare i medici, e constato differenti modi in cui la parola del
medico e il fantasma del medico intervengono nella vita di ciascuno. I fantasmi
che le persone hanno rispetto alla cura e alle aspettative di guarigione vanno
analizzati, non attaccati per essere demoliti, perché non sono fantasie. I
fantasmi sono la realtà, il senso di realtà, un’idea che hai e che ti fa
pensare che tutto il tuo mondo sia nelle mani di questa stessa idea.
Certo, l’intervento cifrematico non sta nella correzione
dei fantasmi, delle idee, dei pensieri, ma nell’instaurazione del dispositivo
di parola, altrimenti rischia di essere confuso con il training autogeno che
propone di sostituire un “pensiero negativo” con uno “positivo”...
Purtroppo, ancora molti medici non intendono la portata del
dispositivo di parola nella cura. Per esempio, una mia cliente a cui era stata
diagnosticata una malattia reumatica ha rifiutato le medicine prescritte dall’equipe
dell’ospedale a cui si era rivolta. Dopo sei mesi è tornata e i medici non
credevano che lei stesse bene soltanto per effetto delle conversazioni.
Eppure, era nell’ambito del dispositivo di parola che lei
aveva trovato la propria strada per fare cose che le davano soddisfazione, e da
lì, evidentemente, veniva la sua nuova condizione di salute.
Tuttavia, in confronto agli psichiatri, i medici sono più
propensi ad ascoltare, tant’è che ho consigliato a una psicologa mia cliente
che lavora in ospedale di tenere una serie di conferenze ai medici prima
d’incominciare a lavorare con loro. È stata una buona idea, perché i medici
effettivamente hanno seguito con interesse gli incontri.
Non solo, molti di loro poi sono andati da lei privatamente.
Ora vorrei raccontare un altro esempio dell’efficacia del
dispositivo.
Un giorno un mio cliente mi telefonò per raccomandarmi una
donna a cui era stata diagnostica una forma molto aggressiva di cancro al seno.
Mi disse che sarebbe stata operata pochi giorni dopo e mi
chiese se fosse stato il caso d’incontrarla prima o dopo l’intervento. Se
l’avessi incontrata prima, magari avrei rischiato di essere preso per uno che
fa miracoli, quindi decisi d’incontrarla dopo. Il primo incontro fu
difficilissimo: era in condizioni molto gravi e non riusciva a pronunciare una
frase di senso compiuto.
Aveva una quarantina d’anni e faceva la psicologa, come altre
due sue colleghe con la stessa patologia. A tutte e tre, dopo l’intervento, era
stato offerto il ritiro anticipato dal lavoro e la pensione d’invalidità. Io
però fui piuttosto deciso: era necessario che continuasse a lavorare, magari part-time,
ma era indispensabile. Lei obbedì – è proprio il caso di dire –, ma io sapevo
che lo avrebbe fatto perché veniva da una località dove avevo vissuto da
ragazzo, a quaranta chilometri di distanza da Göteborg, in cui c’era una
tradizione culturale che disponeva all’obbedienza. Così, non solo proseguì
nella sua professione, ma avviò iniziative interessanti con bambini che avevano
problemi particolari, cosa che in Svezia era vietata all’epoca, negli anni
novanta, perché i bambini con problemi dovevano essere integrati nelle classi
dei bambini “normali”. Dopo sei mesi, purtroppo, le sue colleghe morirono. Lei,
invece, dopo due anni, si cimentò in una camminata sulle pendici dell’Himalaya.
Continuò a convivere con il suo cancro e con la sua terapia,
che era abbastanza pesante, soprattutto all’inizio, quando i medici volevano prevenire
la comparsa di metastasi.
Noi non ci siamo mai opposti alla chemioterapia, tutt’al più
abbiamo chiesto di ridurla. Però ci siamo rifiutati di entrare in una
sperimentazione che non ci sembrava interessante, anche se i medici si erano
arrabbiati molto e all’inizio accusavano la mia cliente di avere danneggiato la
ricerca, che per colpa sua non poteva essere portata a termine.
Per vent’anni abbiamo instaurato dispositivi di parola –
articolati, come dicevo, in conversazione, narrazione e lettura –, in cui lei
ha coltivato e nutrito la sua creatività. La parola ha effetti impensabili
sulla salute, e lei sarebbe vissuta ancora a lungo, se non fosse andata
incontro agli effetti collaterali della chemioterapia sul suo sangue. Comunque,
il suo decesso non è stato causato dal cancro.
Dalla sua testimonianza s’intende che anche in Svezia la
cura deve fare i conti con i protocolli...
A questo proposito vorrei raccontare una vicenda che ha
dell’assurdo.
Tre anni fa, uno psichiatra molto noto a Göteborg che
lavorava sia in grandi ospedali sia privatamente, mi chiese di esaminare
accuratamente la sua vicenda. All’inizio della sua carriera professionale si
era proposto di non prescrivere sostanze psicotrope ai suoi pazienti e
preferiva combinare l’uso della conversazione, come pratica prevalente della
sua terapia, con farmaci che in Svezia erano classificati come narcotici. Negli
anni Ottanta, quando aveva tra i trenta e quarant’anni, intraprese una
battaglia legale con l’allora importante figura della psichiatria nella regione
di Göteborg, il professor Jan-Otto Ottosson, che aveva proposto che solo i
medici impiegati negli ospedali statali dovessero essere autorizzati a prescrivere
farmaci classificati come narcotici. Il mio cliente ha vinto in ultima istanza
e quindi è ancora stato permesso ai medici privati di prescrivere questi
farmaci. Il professor Ottosson aveva pubblicato un manuale di psichiatria che
uscì in diverse edizioni prima che entrasse in gioco il sistema DSM e ponesse
fine a tali sforzi, che erano onesti anche quando uno non era d’accordo poiché erano
aperti al giudizio e adattati alle condizioni locali, mentre il sistema DSM è
stato semplicemente tradotto dall’americano e implementato senza elaborazione.
Ma nel 2015, mentre stavamo portando avanti una ricerca
molto promettente, che sarebbe potuta approdare alla redazione di un lungo articolo
o addirittura di un libro, al mio cliente fu notificato un avviso di indagine
da due agenzie governative che fanno parte del servizio sanitario svedese. La
notifica proveniva da alcuni colleghi medici, ma prima di tutto da alcune case
farmaceutiche.
Ironia della sorte, all’epoca il mio cliente lavorava come
consulente del consiglio di amministrazione della ex azienda farmaceutica
statale. Secondo gli investigatori, aveva prescritto narcotici in misura
eccessiva, sotto il sospetto che egli stesse prescrivendo stupefacenti a
tossicodipendenti. Che naturalmente era falso. E dall’indagine sui sei casi
coinvolti e da quel che ho letto in gran parte delle riviste mediche specializzate,
emerge che nelle accuse al mio cliente non c’era nulla di fondato e che nei
quarant’anni in cui aveva adottato il suo metodo non aveva mai ricevuto alcun tipo
di critica da parte di pazienti o di colleghi.
Armando Verdiglione parla della burocratura, la dittatura
della burocrazia, che in Italia ostacola in tutti i modi possibili l’impresa
intellettuale, e afferma che le norme del diritto societario sono pensate per
la produzione di beni materiali, mentre sono del tutto inadatte al settore dei
servizi intellettuali. Sono noti gli attacchi della burocratura che Armando Verdiglione
e il movimento da lui fondato hanno dovuto fronteggiare dal 1984, semplicemente
per affermare la libertà di parola, di ricerca e di impresa intellettuale.
Ebbene, credo che possiamo considerare il caso del mio cliente come un caso di
burocratura, anche se non siamo in Italia: in aprile è stato costretto a
smettere la sua attività di medico, dopo essere stato privato della licenza di
prescrivere narcotici, in seguito al processo.
In autunno ha riaperto la sua attività in altri ambiti, ma
io gli ho suggerito di rivolgersi al suo avvocato per inoltrare un ricorso alla
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, se non è possibile fare
ricorso in Svezia; inoltre, gli ho suggerito di scrivere un articolo sul suo
caso e di pubblicarlo su una rivista di medicina.
Non so come sia la situazione in Italia, ma nel mio paese
molti medici si arricchiscono lavorando come dipendenti dello Stato e non osano
certo opporsi alla burocrazia. È molto triste che il mio cliente non abbia avuto
alcun aiuto, pur avendo molti amici medici. Quindi, anche se la situazione in
Italia è aggravata dallo strapotere dei magistrati, in Svezia non è molto
differente.