UN SOGNO CHIAMATO ITALIA
La prima vera rivoluzione industriale nella provincia di
Modena, il cosiddetto “miracolo emiliano”, risale agli anni sessanta del XX
secolo: decine di migliaia di imprenditori, tecnici e artigiani riuscirono –
anche grazie all’istruzione fornita da un istituto scolastico come il Fermo Corni
– a dare un apporto indispensabile alla nascita e al consolidamento di una miriade
di imprese di media, piccola e piccolissima dimensione che hanno trasformato
radicalmente l’economia e la storia del nostro paese… Gli artigiani
modenesi che hanno aperto le officine meccaniche, tuttora disseminate in tutto
il territorio, sono alla base di quell’impetuoso processo di sviluppo che nel
corso di alcuni decenni ha posto fine a una condizione plurisecolare di povertà
e arretratezza e ha proiettato Modena ai vertici delle graduatorie italiane ed europee
per reddito prodotto, tenore di vita e benessere diffuso.
Nelle officine meccaniche la precisione non era solo un
attributo da porre accanto al nome del nostro mestiere, la meccanica di
precisione, ma improntava ciascun gesto della giornata e non esisteva alcuna giustificazione
per chi commetteva un errore. Ciascuno, dall’anziano con esperienza al giovane
fresco di diploma, entrava in officina sapendo che la giornata richiedeva grandi
sacrifici ma che poi avrebbe dato anche la soddisfazione di avere portato a
termine un lavoro a regola d’arte e, intanto, di essere cresciuti, di avere
acquisito qualche elemento in più giorno per giorno. All’epoca, se un giovane
chiedeva di essere assunto in un’officina e dal suo libretto di lavoro
risultava che aveva cambiato troppe ditte, il titolare non lo prendeva neanche
in considerazione per una piccola prova. Oggi, le stesse officine che potevano
scegliere fra tanti pretendenti hanno il problema opposto: devono prendere
quello che viene, letteralmente, nel senso che, purtroppo, molti giovani che chiedono
di lavorare in officina sono senza ambizione, cercano un lavoro come un altro e
quindi sono completamente inadatti a un ambiente dove è richiesta la precisione
assoluta, la dedizione assoluta. Sarà colpa della caduta dei valori che segue a
ogni fine secolo, ma mi chiedo quando ci riprenderemo, quando e con chi potremo
finalmente riprendere in mano il nostro patrimonio industriale, rilanciarlo e
valorizzarlo come meriterebbe. E poi mi chiedo che cosa voglia dire fare
impresa in Italia e se l’Italia merita l’impegno che tutti quelli come me
mettono nel lavoro, quando lo Stato non è neanche in grado di fornire quello di
cui abbiamo bisogno per continuare il nostro impegno. È come se cercassimo di
remare verso il largo mentre qualcuno ci tiene legati alla banchina del porto,
anziché spingerci in avanti.
È sotto gli occhi di tutti la fuga di capitali e di cervelli
dalla nostra penisola.
Qualcuno ogni tanto sottolinea che siamo il settimo polo
industriale del mondo: è vero, ma quanta di questa produzione è italiana? Quanta
invece è determinata da capitali stranieri, che cambiano da un anno all’altro? Se
il nostro governo mettesse in atto una politica industriale per il paese, le
piccole e medie imprese potrebbero investire per ampliare le proprie strutture
organizzative e rispondere alle esigenze del mercato globale, che chiede sempre
più grandi numeri nella produzione. Ma forse non ci sarebbe neppure bisogno di chissà
quali ampliamenti, basterebbe valorizzare il tessuto industriale del nostro
territorio: se mettiamo insieme anche soltanto le nostre officine, abbiamo la
più grande industria del mondo; se poi mettiamo insieme anche quelle della
Lombardia e del Veneto, non c’è un paese europeo che possa vantare una simile
densità di eccellenza industriale, neanche la Germania. Una simile ricchezza andrebbe
tenuta cara come un gioiello, invece, chi fa impresa in Italia è il più
vessato, oppure, se vuole avere “successo” – cosa differente dalla riuscita,
conseguita attenendosi al progetto e al programma giorno per giorno, con
costanza, sacrifici e soddisfazione –, deve pagare chi lo fa avanzare.
Purtroppo, in Italia, i compromessi con la politica e il malaffare non mancano,
ma gli altri paesi non sono da meno in questa corsa alla via facile per il
successo.
Questo non è il modus operandi della piccola
industria, che vive di sogni, e il nostro imprenditore non chiede altro che di
avere prospettive di crescita, non può continuare a lavorare soltanto per
pagare i mutui e le tasse. È assurdo. Allora, capisco anche quelli che negli
ultimi dieci anni hanno rinunciato al loro sogno e sono tornati a fare i
dipendenti, umiliati dalla vita. Quando qualcosa non va, certamente dobbiamo
chiederci quanta responsabilità abbiamo noi, ma occorre che ciascuno assuma le
proprie responsabilità: se alcuni non sono riusciti nella loro impresa, dopo
che avevano venduto anche la casa per far fronte ai debiti, forse è anche
perché non hanno trovato nelle istituzioni interlocutori, ma solo spietati
esattori. E, paradossalmente, sono le piccole e medie imprese – che non
ricevono alcuna assistenza da parte dello stato, il quale foraggia i soliti
pachidermi – a dovere farsi carico dell’assistenza di tutti. Adesso mancavano
solo le politiche per il welfare aziendale, confezionate su misura per e da
grandi aziende per “lavarsi la coscienza”, come se fare profitto fosse un
peccato, e rese obbligatorie per le piccole che, notoriamente, sono sempre
state attente alle esigenze dei propri collaboratori, considerati quasi come
membri della famiglia dell’imprenditore.
Stanno provando da troppo tempo a toglierci il sorriso,
forse perché una miriade di imprenditori sono molto meno gestibili e
controllabili di quattro o cinque che si spartiscono la torta. Altrimenti,
perché tanto accanimento contro chi costituisce il cuore dell’economia del
paese e mantiene anche tutti coloro che non avrebbero nemmeno da mangiare, senza
le stesse aziende contro cui si accaniscono? Pensiamo al caso di Armando
Verdiglione, che ha inventato un’impresa intellettuale unica nel pianeta, per
l’intersezione fra cultura e industria già negli anni settanta, quando ancora
vigeva il pregiudizio che la cultura dovesse essere “stracciona” e il denaro
“ignorante”.
Lo hanno accusato delle cose più assurde, pur di fermarlo,
anziché ringraziarlo per avere reso famosa l’Italia presso i più grandi
scrittori, artisti, scienziati e imprenditori del pianeta. Perché è accaduto
questo, se non perché le persone che sfuggono al controllo del pensiero unico sono
ritenute pericolose e capaci di qualsiasi cosa? Non sono ritenuti delinquenti,
perché quelli fanno parte integrante del sistema, come il malato che conferma
il sano, ma pericolosi perché potrebbero fare qualsiasi cosa per andare oltre i
paletti che i perbenisti si ostinano a mettere per fermarli.
In pratica, si tenta di arginare l’arte e l’invenzione,
che sono alla base del nostro rinascimento… Il problema è che il
rinascimento viene attaccato dal pensiero arido che fa sfoggio di sé alla fiera
del qualunquismo e del nullismo.
Un’indagine dell’Unione Europea ha constatato che tra i
giovanissimi è sempre meno diffuso il consumo di alcolici e di sostanze
stupefacenti.
Sembra una bella notizia, ma a discapito di che cosa?
Ebbene, hanno verificato che la funzione di rilascio di dopamina ora è assolta
dai like sui social network, soprattutto per gli adolescenti. Andando di
questo passo, c’è il rischio che nella nostra società si riaffermi la falsa
morale di paese, quella per cui ognuno si sente controllato, guardato e si deve
“vendere meglio di quello che è” per “realizzare le sue conquiste e
realizzarsi”, mentre il suo piacere è sempre più un piacere individuale, non
c’è neanche il piacere di bere un bicchiere in compagnia. Stiamo arrivando all’estrema
esaltazione dell’essere, in una società non di superuomini, come avrebbe voluto
Nietzsche, ma di ombre del superuomo, quelle che si potrebbero vedere
proiettate sulla parete della caverna di Platone. E, per essere al massimo del
profilo che spaccia sui social, ognuno si affanna per assicurare tutte le cure
possibili al corpo. E la salute intellettuale? Non c’è posto per l’intellettualità
dove la lettura può avere la durata massima di tre minuti, giusto il tempo per mettere
il doveroso like e così ricambiare chi te lo ha messo prima. Peccato che
poi tutte queste persone che non si curano della salute intellettuale abbiano
comunque un’influenza sulla società, se non altro con il loro voto.
Negli anni ottanta, con il boom dei cartoni animati, il
Giappone nominò una commissione di esperti per stabilire i caratteri salienti
dei personaggi: l’eroe poteva essere anche scontroso, ma doveva difendere
assolutamente e sempre giustizia e verità; gli amici dell’eroe, anche
recuperati, lo aiutavano a difendere quei valori; l’antieroe non era mai del
tutto cattivo e, quando veniva sconfitto, interveniva la redenzione. Questa struttura
era alla base di cartoni animati differenti, che insegnavano, soprattutto ai bambini,
un approccio responsabile nella vita sociale. Quei bambini sono i trentenni di
oggi: calciatori professionisti che prima di lasciare i mondiali quando sono
stati eliminati hanno pulito lo spogliatoio o persone che, anche se hanno
fretta, si fermano per permettere all’addetto alla scala mobile di attrezzarla
per fare scendere una persona in sedia a rotelle. Ci sono voluti trent’anni, ma
il Giappone oggi è un paese di persone con uno spessore intellettuale molto più
elevato del nostro, perché ha investito nell’ambito in cui ciascuna società
dovrebbe investire, la cultura e l’educazione. Questo dovrebbe fare lo Stato,
investire nell’avvenire, perché le industrie, eccetto quelle che fanno parte
degli apparati, si autofinanziano, non hanno bisogno dei sussidi statali, ma
solo di essere lasciate in pace a produrre e inventare. Casomai, uno dei
compiti delle istituzioni sarebbe quello di organizzare incontri fra imprese –
e un po’ le Camere di Commercio lo stanno facendo, ma in modo ancora timido –
per instaurare sinergie fra distretti di vari paesi e scambio di tecnologie e
opportunità di lavoro. Ma certamente, ciascun imprenditore, senza aspettare che
sia lo Stato a costituire occasioni d’incontro, mai come in questo momento deve
trovare lo slancio per instaurare dispositivi di parola e confrontarsi costantemente
con gli altri imprenditori, perché proveranno sempre a portargli via il
sorriso, per invidia, per superbia o chissà per quale insondabile motivo.
Quindi, come sempre, bisogna resistere, e questa volta non da soli, ma
confrontandosi con chi dice che le cose vanno male e con chi dice che vanno
bene, perché dobbiamo pensare che noi viviamo il sogno della maggior parte
delle persone del mondo, e questo sogno si chiama Italia.