MAI PRIVARE L’ESSERE UMANO DELLA SPERANZA
Lei ha incominciato il suo itinerario artistico con la
musica, suonava nella Doctor Dixie Jazz Band di Bologna, la band più longeva al
mondo che ha contribuito alla storia del jazz italiano. Poi, ha avviato
l’attività di venditore per una nota azienda di surgelati, divenendone il migliore
venditore in Italia, quindi, nei primi trent’anni della sua vita, lei si è allenato
a portare all’eccellenza le cose che incominciava. A un certo punto, lungo
l’attività di vendita, ha incontrato il cinema e ha incominciato la sua audace impresa,
girando film che sono entrati nella storia del cinema e del nostro paese, oltreché
nel cuore degli italiani. Come è intervenuta questa svolta? Negli anni
sessanta, i miei amici ed io andavamo spesso al cinema, ma solo vedendo 8 ½,
il film di Federico Fellini, mi sono reso conto delle potenzialità espressive
del ruolo del regista, che racconta la realtà visibile, ma anche la parte più
nascosta delle persone. Sono uscito da quella sala di proiezione con la
missione di convincere i miei amici di allora ad accompagnarmi in quella follia
che è stata il cinema. Questo avveniva nonostante fossimo a ridosso del ‘68, un
periodo nella storia del nostro paese in cui molte follie sono state compiute,
perché i giovani di quegli anni si sentivano legittimati a mettere in
discussione ogni cosa. Certamente, l’epoca non era questa, in cui tutti sono
condizionati in modo ossessivo dalle tendenze del mercato, in cui i percorsi
personali sono praticamente proibiti e sono guardati con una sorta di
diffidenza: i giovani non sperimentano più e sono preoccupati, vivono nella
paura. Allora non era così, i giovani riuscivano a produrre situazioni fin
troppo alternative, al punto che, per quanto riguarda il cinema, hanno ottenuto
l’effetto di svuotare le sale.
Il nostro cinema d’autore di quegli anni era troppo provocatorio,
per cui noi abbiamo la responsabilità di avere favorito il nascere del disamore
e della diffidenza che accompagna ancora oggi il pubblico italiano nel suo
rapporto con il cinema nostrano.
Può precisare la sua valutazione del cinema del ’68? In
quegli anni avevamo messo in discussione l’esistente, con slogan molto
provocatori come “La fantasia al potere”, con l’idea che ciò che fai non hai
bisogno di saperlo fare, vivendo nella convinzione che tutto sia possibile. Ci
affidavamo, ad esempio, alla logica del saggio Opera aperta di Umberto
Eco, che teorizzava una complicità tale nel rapporto fra l’autore e il fruitore
per cui l’opera avrebbe dovuto lasciare spazi all’interpretazione del pubblico.
Era un’idea apprezzabile, ma assolutamente inattuabile, il pubblico non vuole
non capire una cosa per dargli poi una propria interpretazione.
Questo nostro atteggiamento ha prodotto una lacerazione tra
il cinema italiano e il suo pubblico.
Il cinema degli anni precedenti la mia generazione ha
scritto la storia del cinema italiano. La stessa commedia di costume era
un’analisi e una rendicontazione del presente molto stimolante e urticante. Noi
siamo intervenuti con un eccesso di supponenza, di cui oggi sono consapevole e
mi pento. I film che abbiamo prodotto in quegli anni non si trovano in nessuna cineteca
e non si vedono in televisione, perché sono film di una presunzione e di un
contorcimento intellettuale eccessivo.
Inoltre, il cinema è un mezzo espressivo che si confronta e
dipende dal denaro e dal capitale: nel cinema l’immaginazione è grande quanto è
grande il budget. Questa è una premessa che chiunque si avvicini al cinema deve
conoscere, anche se oggi siamo precipitati nell’eccesso opposto.
La valutazione di un film dipende da quanto ha incassato,
oggi siamo solo preda del mercato: vengono finanziate determinate opere in base
a quanti vedranno, ascolteranno o compreranno quel prodotto. Il mercato,
dunque, indirizza le scelte, mentre all’epoca questo non accadeva. Ogni
regista, tutte le volte che si accingeva a raccontare una storia, mirava al
capolavoro.
Eravamo profondamente ambiziosi e non rinunciavamo
all’illusione di credere che in quella occasione saremmo riusciti a fare un
capolavoro. Attualmente, invece, l’ambizione è ottenere il successo commerciale.
La nostra rivista, esplorando l’integrazione fra cultura
e impresa, verifica come l’impresa punti alla qualità. Quanto ha influito
l’esperienza di vendita nella sua formazione? È stata importante, perché
nel momento in cui sono stato selezionato e formato dagli uomini della Findus
per diventare un dirigente, ho capito e intuito che cosa significa motivare un
gruppo, che è l’elemento distintivo tra un’impresa che non funziona e quella
che funziona. Ho poi traslato questa esperienza nella troupe cinematografica,
coinvolgendo tutti i partecipanti al progetto cinematografico, di qualunque
grado e livello. Occorre che il manovale che sta scaricando un carico di
legname avverta, in quel momento, che sta lavorando per quella determinata storia:
non sta scaricando un carico di legno qualsiasi, perché sa che sta contribuendo
al raggiungimento di quel risultato eccelso cui tutti tendono.
Il nostro gruppo è molto coeso e composto di persone che
ragionano in questo modo, per cui ciascuno di loro si sente indispensabile.
Questa è una cosa che molte volte l’imprenditore non valuta perché ragiona in termini
quantitativi e gerarchici.
Così ragionano anche alcuni consulenti e molti media, che
parlano d’impresa senza rischiare in proprio, ma con lo stipendio ben
assicurato. Nella sua impresa, che ha costruito lungo l’esperienza in bottega, in
che termini ha trovato gli strumenti per destreggiarsi in un contesto
difficile, in quanto composto di sottili equilibri, come quello
cinematografico? Nei primi anni da regista ero vittima della mia
inesperienza ed ero ostaggio della mia presunzione, per cui m’illudevo di
potere cambiare la storia del cinema italiano, senza avere nessuno strumento,
subendo il ricatto professionale e tecnologico di chi proveniva invece da un
cinema strutturato e aveva compreso che non avevo l’esperienza sufficiente.
Non solo io, ma anche i miei amici, ci trovavamo coinvolti
in un’impresa che era sotto scacco degli esperti del settore i quali, avendo
capito che avevamo un budget elevato su cui contare, fecero durare le riprese
il doppio delle settimane previste.
Ma non mi arresi: ho imparato il mestiere e mi sono dotato di
una conoscenza del mezzo cinematografico che oggi credo pochi abbiano. Ciò è avvenuto
attraverso gli errori, perché è necessario sbagliare molte volte, cadere da
cavallo e risalire, per far sì che alla fine nessuno ti possa dire niente.
Ingmar Bergman affermò una volta che, solo dopo avere girato sette film, era
riuscito a fare un film che assomigliava a quello che voleva.
Raggiungere la conoscenza del mezzo richiede un percorso
lungo ed io ho cominciato a raggiungere questa conoscenza dopo avere girato molti
film. Occorre attrezzarsi per essere un leader, ma non è possibile esserlo senza
sapere tutto della filiera della produzione.
Lei ha trovato un grande amore sulla sua strada, Porretta
Terme, dove ha ambientato diversi film… Da quella zona della montagna proviene
la parte più creativa della mia famiglia. Mia madre, le mie zie e i miei nonni,
per la precisione, venivano da Vergato, Porretta e Sasso Marconi, cioè dalla
Porrettana. Con loro, portavano la cultura e le favole contadine. Inoltre,
durante la guerra, siamo stati anche sfollati in quelle zone.
Cosa ricorda di suo padre? Di mio padre ricordo la
bellezza e l’eleganza. Inoltre, sapeva fare ridere le donne. Lei sa che, quando
si fa ridere una donna, la si ha quasi conquistata? Mio padre in questo era bravissimo.
E di sua madre? Di mia madre ricordo il senso di fiducia
nelle possibilità che dà la vita.
È stata una donna che fino all’ultimo giorno, all’età di 85
anni, si aspettava ancora di più dalla vita, per noi e per lei. Aveva il senso
della Provvidenza, secondo cui, quando si chiude una porta, poi si apre un
portone. Lei non ha mai dubitato che non si potesse risolvere il singolo problema
che si presentava. Per lei ciascuna cosa era risolvibile e devo dire che molte
volte aveva ragione.
I suoi film procedono dall’apertura: anziché schierarsi
per il bene o il male, lei attua una sorta di sospensione del giudizio… È
vero. Avendo io commesso tutti i peccati, di tutte le categorie e di tutte le
temperature possibili, come posso permettermi di puntare il dito? Non comprendo
questi personaggi pubblici che chiedono ghigliottine, prigioni e carceri. Gli
umani sono costituiti da un misto di atteggiamenti, io stesso non so se nella
mia giornata prevale il Pupi buono o quello cattivo. Inoltre, commetto peccati
molto gravi, come l’invidia e l’egoismo. Non mi privo di una cosa che mi piace,
piuttosto vado a comprarne un’altra e la regalo.
Anche se sentire nei riguardi della gioia altrui addirittura
una sorta d’ingiustizia - un atteggiamento d’invidia che mi accompagna fin da
quando ero ragazzo - forse ha giovato nel tenere in vita la mia energia
creativa, perché mi ha sollecitato a ottenere quel che cercavo.
Che cos’è l’ingiustizia per lei? È difficilissima da
definire: di primo acchito, l’ingiustizia è quando avverti di meritare qualcosa
che non ti viene dato. È il rumore di fondo che accompagna ogni esistenza:
ognuno di noi sa di dover essere risarcito, perché sa che gli era stato
promesso di essere il prescelto e si rende conto, lungo il percorso, che ciò
non sta accadendo, ma anzi vengono preferiti altri. Questo è il primo elemento
per cui avverti che c’è un’ingiustizia nel mondo. Ma quando allarghi lo sguardo
al grande mistero del dolore, ad esempio quello di una madre che perde un
figlio, come lo spieghi? Non può essere così casuale e insensato. Non possiamo lasciare
questa donna, che ha perso la cosa che più ha amato nella sua vita, senza la
minima speranza che quella perdita, quello strazio, quel dolore e quell’ingiustizia
abbiano un senso.
Io credo quindi che l’ingiustizia sia una sorta di
proselitismo laico, che consista nel convincere le persone che non c’è
speranza: quello che accade accade, non c’è nessun orecchio che può ascoltarti
e non c’è nessuno “dopo” che ti possa in qualche modo risarcire. Ma la cosa più
grave che si possa commettere è privare l’essere umano della speranza.
Come possiamo concorrere a rilanciare la speranza della
rinascita di Porretta Terme? Occorrerebbe un investimento, finanziario
innanzitutto, ma anche creativo, per restituire a Porretta un’immagine che non
ha ancora. Io stesso per convincermi che mi piacerebbe andare questa sera a
Porretta a mangiare dai Santoli ho bisogno di pensare alla Porretta di una
volta.
Questo è un limite, perché non basta rendere seducente una
cittadina il fatto che lo sia stata tanti anni fa: occorre attualizzare la
proposta di Porretta con nuovi progetti, anche attraverso un rilancio delle sue
ricchezze e delle sue terme.