LA PAROLA: IL TERRENO DOVE SOFFIA IL VENTO DELLA QUALITÀ
Per affrontare il tema di questo numero Il vento
della qualità, potremmo prendere spunto dalla precedente intervista, in cui
lei notava che senza il fare non c’è l’influenza. In che modo l’influenza
dell’impresa porta il vento della qualità, non soltanto per l’imprenditore, ma
anche per i collaboratori, i clienti, i fornitori e il territorio in cui
l’impresa opera? Uno dei maggiori pregi dell’impresa italiana è proprio
quello di avere aumentato il livello di qualità della vita nella società. La qualità
della vita in Emilia Romagna, per esempio, è cambiata da quando hanno aperto le
officine, perché gli operai avevano la possibilità di mantenere la propria famiglia,
di costruirsi un futuro e di comprarsi una casa, mentre prima dell’avvento delle
industrie italiane i contadini non avevano una casa di proprietà, tanto meno
un’automobile. Certo, magari non riuscivano a permettersi grandi lussi, ma
anche soltanto la possibilità di mandare i figli a studiare era qualcosa che ancora
oggi non tutti possono concedersi.
E non dimentichiamo che una grande nazione si costruisce a
partire dall’istruzione dei suoi cittadini. Per ciò l’influenza dell’impresa è
politica, anche se non sempre la politica lo ammette, anzi, in Italia non c’è
mai stata una vera e propria politica industriale. La politica industriale
italiana è sempre stata compromessa con l’oligarchia, basti pensare agli anni
della Fiat: quanto è stata deleteria per il nostro paese quella politica?
Quanto ha bloccato la nascita di una grande Italia? Quanto è stata dilaniante per
le politiche del Mezzogiorno? È incommensurabile, non si può dire, ci sono
esempi di morti, morti fisiche, generazioni morte perché avevano scommesso nel
futuro dell’industria italiana e sono state moralmente affossate. E non parlo tanto
di casi famosi, come quello di Enrico Mattei, ma di intere generazioni depredate
di un pensiero e di una prospettiva per l’avvenire del paese. Ma questo non
riguarda soltanto l’Italia, è opera di una burocrazia che attanaglia l’intera Europa.
È l’apparato burocratico, non solo quello reale, ma anche quello interno alla
nostra stessa cultura, che ci blocca. Abbiamo una burocrazia che è un retaggio culturale
di secoli, frutto di quello che Armando Verdiglione chiama il discorso
occidentale, che è contro il vento dell’impresa, il vento della qualità, perché
bada soltanto al controllo sociale, per cui nulla di nuovo deve accadere, la
novità va fermata. E l’impresa, l’intrapresa, finisce spesso nel mirino perché
è di per sé portatrice di novità.
Fino a qualche decennio fa gli imprenditori si aspettavano
molto di più dalla politica, dalle associazioni di categoria, speravano che
fossero loro a “trainare il carro”, mentre adesso hanno capito che devono trainarlo
da soli. Purtroppo, devono anche scansare continuamente le buche nel terreno
che rovinano la loro corsa. E, quando scoprono che le buche sono fatte apposta
da un apparato che dovrebbe essere al loro servizio, è già tanto se riescono a
mantenere la rotta.
Allora, il vento dell’impresa rimane soltanto quello che riesci
a prendere con la tua piccola vela, non è più un vento che spinge tutte le navi
nella stessa direzione, sembra quasi un cartone animato dove tu sei dietro e
soffi con tutte le tue forze per cercare di raggiungere la meta.
L’apporto che le imprese danno alla società non si misura
soltanto in termini di fatturato, ma anche di invenzioni, quindi in termini
scientifici e culturali… Basti pensare che oggi esistono più di ottocento nuovi
materiali prodotti dall’uomo, per cui la scienza non può occuparsi soltanto
della natura: l’industria ha prodotto una seconda natura, che vive accanto alla
prima. Ai tempi di Democrito, il legno era legno e il sasso era sasso, non era
così difficile conoscere i materiali. E, tuttavia, se chiedevi a un falegname
la sua conoscenza del legno, andava oltre quella scientifica del materiale stesso,
perché nel lavorarlo e nel lavorare legni differenti aveva acquisito una
scienza superiore a quella di qualsiasi depositario del sapere. Con l’avvento
dell’era moderna, si è sviluppata una sorta di dualismo: la conoscenza empirica
è aumentata, perché il falegname oggi può accedere a duemila anni di esperienza
pregressa nella lavorazione legnami, ma simultaneamente gli studiosi dei
materiali, attraverso lo sviluppo di nuove scienze nate nell’ultimo secolo, possono
acquisire tanti elementi intorno alla struttura di un materiale, che non sono
direttamente legati al lavoro del falegname e vanno oltre il suo impiego. E la
stessa struttura viene copiata per inventare nuovi materiali, oppure per
ampliarne le caratteristiche, per ovviare ai loro difetti. Questo accade anche grazie
all’invenzione, in ambito industriale, di apparecchiature molto sofisticate per
aumentare la conoscenza dei materiali e degli oggetti, attraverso dispositivi
di scansione, come il tomografo o altri strumenti d’indagine non invasiva, che
un tempo si usavano soltanto in medicina. Oggi, se voglio costruire un
aeroplano che possa reggere agli sbalzi di temperatura da -50° a 50°, devo sottoporre
vari tipi di materiale a prove tecniche in grado di stabilire quale sia più
idoneo.
E, molto spesso, l’avanguardia di questo studio è la
“creazione” di un nuovo materiale in grado di sopportare questi sbalzi: ormai, sfioriamo
l’idea di onnipotenza, crediamo di avere la potenza di Dio, quella che ci
consentirebbe di creare materia a nostro piacimento.
Ma nessuno può creare materia, quelli che vengono inventati
sono materiali. È come se in pratica avessimo molti più pezzi di lego con cui
giocare, la materia è sempre la stessa, non la creiamo.
In greco hyle, materia, voleva dire anche legno.
La materia è proprio ciò che fa resistenza a qualsiasi padronanza… I
materiali invece sono rappresentazioni della fantasia. E qui veniamo alla
filosofia che influenza la scienza, anche se non può essere scienza. Purtroppo,
c’è chi si aspetta che lo diventi. Mentre è frequente trovare una teorizzazione
della scienza, cioè una branca che si occupa dell’aspetto teorico e non
empirico della scienza, come la matematica teorica o la fisica teorica, la
filosofia per sua stessa definizione non può assolutamente essere scienza, in
quanto è un’analisi logica per cercare di capire le cose attraverso la
conoscenza, il sapere precostituito. Apprezzo la Roberto Panichi, Opus VI,
35x51, tempera su carta cifrematica perché non spinge a sapere tutto – non
si può sapere tutto –, anche se, d’altra parte, sprona a sapere sempre di più.
La cifrematica è la scienza della parola originaria,
senza rimando a un sapere precostituito, a un ineffabile… Senza rimando a
un senso ultimo, senza andare a cercare l’ontologia della parola. L’ontologia
della parola è il miraggio della sapienza, quella che anche a Socrate sfuggiva.
Platone aveva bisogno dell’Iperuranio per definire le sue idee, ma le parole non
erano mai una rappresentazione dell’Iperuranio, probabilmente erano una
rappresentazione del suo pensiero. Quindi credo che sia fondamentale togliere
alla parola un presunto sostrato ontologico e considerarla invece come terra da
cui nasce il frutto del percorso e del cammino di ciascuno, terreno da cui l’impresa
può trarre alimento per sviluppare il progetto e il programma in direzione
della qualità.