COME IL TEMPO GOVERNA LE COSE NELL’IMPRESA
Il titolo di questo numero del giornale è Il tempo
pragmatico, il tempo della novità, dell’invenzione, delle cose che si fanno
in modo differente e vario, anziché conformandosi a standard estranei alla vita
dell’impresa. Che cosa può dirci a questo proposito, a partire dalla sua esperienza
d’imprenditore e presidente di TEC Eurolab? Uno degli aforismi di Albert
Einstein recita: “Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché
arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa”. Nell’impresa – ma anche
nella vita – le invenzioni intervengono se non ci si aggrappa ai pregiudizi:
chi pensa di sapere già come si fa qualcosa di nuovo difficilmente ottiene un
risultato interessante, perché ha davanti il suo bel muro di cristallo che gli
impedisce di percepire la realtà, anzi, lo costringe a distorcere l’esperienza
attuale sulla base di quelle passate. Da qui, dinanzi all’esigenza d’inventare
qualcosa che non esiste ancora, l’abitudine piuttosto frequente in ambito
tecnico di rispondere: “No, questo non si può fare”. Al contrario, chi ha esperienze
differenti, o addirittura nessuna esperienza nel settore, si mette alla prova
con la massima apertura, affrontando gli inconvenienti man mano che
intervengono nel fare, e magari trova una via a cui nessun esperto avrebbe mai
pensato.
Purtroppo, le persone più vanno avanti con l’età e più
lavorano facendo riferimento al loro cosiddetto “bagaglio tecnico”, il quale,
se in tante occasioni permette di fare subito la scelta giusta, in molte altre
incasella l’esperienza attuale in una serie di “pareri precostituiti”, che
limitano il fare e la novità. Allora, anche se è impossibile che una persona si
privi delle proprie competenze, in alcuni casi forse occorrerebbe che si facesse
affiancare da qualcuno che non ha esperienza in quell’ambito.
In azienda abbiamo constatato che mettere attorno a un
tavolo persone con esperienze differenti, per ragionare intorno un tema
rispetto a cui ciascuno dà il proprio contributo, porta a risultati a volte
sorprendenti, soprattutto se avviene in modo strutturato, periodico, e non
casuale.
Il riferimento all’esperienza passata non ha nulla a che
fare con il contingente, con l’occorrenza, con il tempo dell’impresa...
Soprattutto nella nostra era, in cui le innovazioni sono
così rapide e indispensabili, mantenere pregiudizi e, quindi, stabilire a
priori se una cosa sia fattibile o non lo sia e in quale modo possa o debba
essere fatta, diventa veramente un limite inaccettabile in ciascun ambito della
vita.
Prendiamo, per esempio, i pregiudizi sull’organizzazione del
lavoro, per cui non si adotta lo smart working per alcune persone che
svolgono alcune funzioni in un’azienda, perché “potrebbe comportare problemi a
livello sindacale, relazionale, contrattuale, e così via”. Ma se non
affrontiamo questi problemi oggi, saremo costretti a farlo fra qualche anno,
perché nessuno continuerà a lavorare come lavorava quindici anni fa. Quindi, sono
gli strumenti legislativi a dovere adattarsi pragmaticamente alle trasformazioni
continue che intervengono nel lavoro e nella società, non viceversa.
Leonardo Da Vinci non aveva assolutamente un libro di
riferimento, quindi non aveva il libro che doveva guidare e correggere
l’esperienza, semmai era l’esperienza a correggere il libro...
È un invito che rivolgo spesso ai nostri tecnici, i quali,
per effettuare ciascun test di analisi, devono seguire una procedura specifica
e, soltanto in questo modo, possono rilasciare la certificazione richiesta dal
cliente al nostro laboratorio. Ma, se nel corso dell’esperienza di analisi si
accorgono che quella procedura è migliorabile, allora, hanno il dovere di
correggerla. E lo stesso faranno i tecnici che effettueranno altri test dopo di
loro, in modo che le nostre procedure siano sempre aggiornate alle nostre
competenze del momento.
Quindi, nella nostra impresa nessuno può sentirsi garantito
da “ciò che sta scritto”, perché nell’impresa l’esperienza è sempre in corso,
non può valere una volta per tutte.
Questo è il tempo pragmatico, il tempo che governa le
cose. Come diceva Machiavelli: “Di cosa nasce cosa, e il tempo la governa”. Per
cui, nell’impresa, nessuno può mettersi i paraocchi e non accorgersi che
qualcosa merita attenzione, soltanto perché avrebbe troppe cose da fare e
questa non sarebbe di sua competenza...
Infatti, nessuno può sottrarsi alle sfide continue dinanzi a
cui ci pone la vita dell’impresa, dove ciascuno non è mai da solo nel fare,
perché ciascun lavoro che svolge è stato preparato da qualcun altro. Nel
processo di analisi, per esempio, il provino che un tecnico osserva al
microscopio è stato inglobato e lucidato da qualcun altro in una fase
precedente. Se non è stato lucidato bene e presenta, per esempio, striature
dovute alla preparazione, il tecnico che lo osserva al microscopio può
scambiare quella striatura, dovuta alla cattiva preparazione, per un difetto
del materiale, quindi può cadere in errore e consegnare un esame metallografico
con un giudizio sbagliato sulla struttura del componente di cui un altro
tecnico, nella fase successiva, deve effettuare l’analisi di rottura completa.
Ecco perché ciascuno di noi deve trasmettere nel miglior
modo possibile a chi viene dopo di lui ciò che ha ricevuto da chi lo ha
preceduto.
Facendo un paragone sportivo, mi piace accostare questo
concetto con quanto accade nella pallavolo, dove nessun giocatore può toccare
la palla due volte consecutivamente, quindi è d’obbligo che ogni intervento
metta il compagno nelle condizioni ottimali per proseguire l’azione. Azione che
non si esaurisce con l’attacco; infatti, mentre un compagno attacca, o schiaccia,
come si dice in gergo, tutti gli altri si raccolgono per cercare di recuperare
un suo eventuale errore.
Quindi, se l’attaccante viene murato, la palla torna nel
nostro campo e noi siamo tutti pronti, e questo dà al nostro attaccante la
sicurezza necessaria ad aumentarne l’efficacia.
Questo è il dispositivo di riuscita. Lo avrà constatato
anche nella sua esperienza sportiva, considerando che lei ha giocato a
pallavolo anche in serie A...
Per me la pallavolo è stata prima di tutto una scuola di
vita. All’inizio giocavo a calcio, come tutti i ragazzini, ma mi sentivo molto
solo perché, siccome non ero molto bravo, venivo evitato dai miei compagni. A
me la palla non la passavano, quindi vagavo per il campo, cercando di fare quei
due o tre tiri che mi capitavano quasi per caso. Quando incominciai a giocare a
pallavolo, scoprii che non potevano evitarmi, perché, se mi evitavano,
perdevano la partita. Era loro interesse che io ricevessi bene il pallone e, se
questo non avveniva, in un primo momento, si arrabbiavano, ma poi mi aiutavano
perché anch’io, come ciascuno, potessi dare il mio contributo al risultato. Fu
una svolta importante per me, che mi consentì di acquisire un altro approccio
alla vita e alle cose, un approccio che poi avrei portato con me anche in
azienda, oltre che nella mia breve carriera di allenatore. E sono convinto che l’azienda
funzioni esattamente come un campo di pallavolo. Ecco perché l’imprenditore non
può limitarsi a migliorare il capitale tecnologico dell’azienda, ma deve
puntare in modo assoluto sul capitale intellettuale, che è importante non solo
per lo stesso imprenditore, ma anche per l’influenza che può avere nella valorizzazione
di ciascun socio e di ciascun collaboratore.
Soprattutto in un momento di grandi trasformazioni come
quello attuale...
Leggendo di recente la lettera con cui aprivo il bilancio
sociale 2016, incentrato su Industria 4.0 e sugli effetti delle innovazioni
tecnologiche e dell’intelligenza artificiale nella società – posti di lavoro,
modo di lavorare, e così via –, riflettevo sul fatto che non dobbiamo temere
che l’avanzamento tecnologico comporti l’eliminazione del lavoro dell’uomo.
Tuttavia, gli uomini devono adottare un altro approccio al
lavoro, devono sentirsi parte di un progetto e andare verso quell’idea di
azienda in cui non ci sono dipendenti, ma protagonisti consapevoli della
propria funzione, del proprio ruolo e del proprio contributo alla riuscita
propria, dell’azienda per cui lavorano e del territorio in cui l’azienda
risiede.
Purtroppo, questo approccio è ancora lontano da molte realtà
aziendali, che invece interpretano il posto di lavoro come qualcosa che rimane
legato a una mansione. Per questo motivo, la rivoluzione che stiamo vivendo in
ambito tecnologico deve necessariamente riguardare anche l’uomo.
Certo, è molto più facile innovare un software, un processo,
un dispositivo meccanico o meccatronico, che non apportare una trasformazione nella
vita degli uomini, nella cultura individuale, che poi si trasforma in cultura
delle città e delle comunità.
Oggi, finalmente, si ricomincia a discutere dell’esigenza di
educare i nostri ragazzi alla vita civile, quindi forse il problema sta
emergendo.
Penso che sia un compito alquanto pragmatico accompagnare
l’innovazione tecnologica che è prodotta dall’uomo stesso. Sarebbe sciocco che
l’uomo non pensasse a innovare anche la propria cultura: ci sarebbe il rischio
di trovarsi un domani con un livello tecnologico elevatissimo al quale potrebbe
rispondere soltanto il 5 per cento dei cittadini, mentre il resto sarebbe fermo
a un’idea di lavoro da mansionario.