PERCHÉ LA VITA NON PUÒ ESSERE SPRECATA
Nella sua intervista pubblicata sul numero 77 del nostro
giornale, lei ricordava ciò che sant’Agostino dice del tempo: “Se mi chiedete
che cosa sia il tempo, non lo so, se non me lo chiedete, lo so”. Chiaramente,
non si riferiva al tempo nel senso comune del termine – ovvero, come qualcosa
che passa e scorre e che, quindi, possa essere misurato e risparmiato –, ma al
tempo come qualcosa d’irrappresentabile e, tuttavia, inerente al suo etimo greco
temno, “taglio”, come a indicare che c’è tempo nell’istante in cui le
cose si fanno, non nello spazio sottoposto al concetto di durata (un giorno, un
mese, un anno, e così via).
A partire dalla sua esperienza nell’impresa, in che modo lei
constata il tempo delle cose che si fanno? A volte mi accorgo che, dopo
avere riempito l’agenda di cose da fare nella giornata, mi resta ancora tempo.
Spesso, invece, sento qualcuno che si lamenta: “Non riesco a fare tutto quello
che vorrei perché non ho tempo”. Facendo, il tempo si trova: è qualcosa che
sembra miracoloso, perché è più “fare tempo” che tempo per fare. Quando inizi a
lavorare al mattino presto e poi prosegui a ritmo sostenuto senza pensarci, se
non ti abbandoni, è come se il tempo si producesse, come se diventasse una
realtà non così fondamentale come può percepirla una persona che non ha impegni
o uno studente o chi svolge un lavoro che non gli piace. Per queste persone il
tempo è una costrizione, una categoria all’interno della quale sei obbligato a
vivere. Così, il tempo smette di essere quello di cui parlava Sant’Agostino
nella frase da lei citata, quella fantastica esperienza che ci aiuta nel
viaggio della vita, e diventa quel concetto di Kant e Schopenauer che ci
opprime.
Colgo questa differenza. L’ho constatata nella mia
esperienza: più fai e più il tempo cronologico perde significato, non hai
bisogno di aspettare di avere tempo per fare, perché le cose non stanno ferme ad
aspettare, e non hai l’assillo di “arrivare a sera” o di “non vedere l’ora che
arrivi il venerdì”. Anzi, facendo, arrivi da una domenica all’altra senza
neppure accorgertene, le giornate sono così piene che la vita è molto più
ricca. Allora cosa succede? Proviamo a dare una valutazione del tempo nella
vita: se il tempo fosse cronologico, sarebbe uguale per tutti, una settimana
mia equivarrebbe a quella di qualsiasi altra persona. Ma se il tempo procede dal
fare e una mia settimana è molto più densa e proficua di quella di una persona
che fa le cose con il misurino, allora io ho vissuto due settimane mentre gli altri
ne hanno vissuta una. Ecco perché dicevo che noi facciamo tempo, cioè facendo
il tempo esiste, se non facciamo il tempo non esiste.
Se non facciamo, esistiamo nel tempo come categoria, se
facciamo, “facciamo il tempo” perché i nostri ritmi influenzeranno quelli degli
altri. Senza il fare, non c’è neanche l’influenza.
Infatti, facendo, s’instaura l’Altro tempo, con la sua
influenza. Oggi sono molto in voga gli slogan che inneggiano al cambiamento a
tutti i costi. Ma nessuna trasformazione può intervenire senza l’influenza
dell’Altro tempo: non c’è trasformazione se la giornata è scandita da
abitudini, pregiudizi e principi saldi che pretendono d’incasellare il fare.
La vita non può essere sprecata, per questo è essenziale non
fissarsi sul già fatto o su un presunto sapere precostituito, che dovrebbe
guidare il fare. C’è un detto diffuso tra noi metalmeccanici che facciamo meccanica
di precisione: quando un ingegnere esce dall’università sa un sacco di cose ma
non sa fare niente.
Ed è così, perché vive nell’iperuranio di una conoscenza che
non ha avuto ancora modo di diventare pratica, di scontrarsi con l’imperfezione
della messa in opera delle idee. L’idea è sempre perfetta, è la sua messa in
opera che la rende imperfetta, perché si carica di cose che non le appartengono.
Un ingegnere può fare tutti i calcoli possibili, ma non può
sapere quando una cosa è infattibile, perché per lui funziona sempre, è nella
realtà che non funziona. Quello che funziona o non funziona nella realtà
s’impara nell’arco di una vita intera. Da quando ho incominciato la mia
attività vent’anni fa – prima nell’azienda di famiglia, l’Officina Meccanica
Bartoli, e poi nell’Officina Bertoni Dino, che ho rilevato tre anni fa – ho
attrezzato milioni di volte le macchine per lavorare miliardi di pezzi, ma,
ancora oggi, ogni volta che parte la macchina, non so prima se le cose funzioneranno
o no. In un’azienda non c’è posto per i “fenomeni”, nessuno può fare da solo,
né chi vanta un sapere specialistico né chi ha un’esperienza incontestabile, la
riuscita dipende dalle tante forze che si mettono in campo e che formano una
squadra. Non c’è chi possa sentirsi depositario della verità sul fare, è
l’esperienza che decide.
Quindi, possiamo dire che è il tempo a dare ragione delle
cose … Sì, perché un’esperienza non può essere giudicata mentre è in corso.
Non solo, ma di ciascuna esperienza non c’è una verità
assoluta. Se, per esempio, facciamo leggere una poesia a cento persone e
chiediamo a ciascuna che cosa ha capito, emergeranno almeno cento aspetti differenti.
Non esiste la verità assoluta della poesia, la verità sta in ciò che ciascuno
aggiunge all’opera d’arte, la verità non è nella bellezza del David di
Michelangelo, ma nella meraviglia degli occhi di chi lo guarda, perché se fosse
in mezzo a una giungla o sul fondo del mare i pesci non si meraviglierebbero di
tale bellezza. Quindi, il David non è bello, è meraviglioso, perché suscita
meraviglia a chi ha gli strumenti per ammirarlo, non certo a quelli che vi
appongono la firma: “Gita di classe, novembre 2017”.
Ha citato la poesia non a caso, perché in greco poiesis
vuol dire sia poesia sia fare… In Grecia era difficile che il poeta
componesse poesie appellandosi a una coscienza pura, le poesie non stavano
nell’iperuranio ma in ciò che accadeva. Il poeta era un uomo che faceva, nell’esperienza,
e aveva la capacità di cantare la propria esperienza affinché fosse di monito
oppure di aiuto agli altri, anche perché in Grecia c’era una cosa che oggi è
molto rara, ovvero l’aiuto, soprattutto dal punto di vista intellettuale: il
sapiente sentiva la responsabilità d’informare chi non lo era. I sofisti erano
così, erano tra la gente. La responsabilità sofista era sentita come la pietas
romana e per questo si spendevano tante ore a parlare.
Oggi, purtroppo, ci sono molti eremiti, che si compiacciono
dei percorsi di meditazione finalizzati a una presunta conoscenza di sé.
Ma il tempo della meditazione è fine a se stesso, la più
grande conoscenza possibile di sé è del tutto inutile perché non può essere d’esempio
per nessuno. È anche un grande spreco, perché, se questi eremiti parlassero
ciascun giorno con qualcuno di ogni loro piccola conquista, riuscirebbero a
capire le cose molto prima. Invece, finiscono i loro giorni nel deserto, magari
in pace con gli astri e la natura, ma senza avere capito tutto ciò che avrebbero
potuto capire, se avessero parlato con qualcuno. E tutto il loro isolamento, le
loro privazioni saranno state esclusivamente fine a se stesse, perché nessuno
potrà seguire il loro esempio di vita, nessuno potrà appellarsi nel momento del
bisogno alla loro forza e alla loro tenacia, di cui non si sa nulla.
Nessuno può partire dalla loro poesia per sviluppare la
propria, perché nessuno ha mai ascoltato le loro parole.
Gli eremiti ci sono anche in officina: gli ultimi grandi
lavoratori che hanno incominciato da bambini e adesso hanno sessant’anni,
quelli che hanno lavorato quando ancora si prendevano le botte se sbagliavi.
Ne ho prese tante anch’io da mio nonno, ma non mi lamentavo
perché capivo che la sua non era cattiveria, era un modo per farti capire velocemente
quanto era importante quello che stavi facendo, perché se non stavi attento
potevi farti male e se ti facevi male era finita, perché in officina ci sono
macchinari che mettono in pericolo la vita. Gli eremiti dell’officina hanno una
conoscenza empirica del lavoro inarrivabile, fatta di un numero insuperabile di
ore passate a lavorare. Se non hanno qualcuno al fianco pronto a coglierne gli
insegnamenti, la cosa più importante che ci sia per una vita, l’esperienza del
fare, svanisce quando loro vanno in pensione.
Sono risorse che difficilmente sono capite, vengono isolate,
vengono oberate di lavori e di responsabilità, ma anche loro non sono propensi a
insegnare, perché non sono stati messi nelle condizioni di pensare di dover
insegnare oppure perché pensano che per insegnare tu debba proporti, perché un
tempo quando volevi imparare a fare qualcosa non te lo insegnavano, dovevi
andare lì a rubare il mestiere. Poi, una volta che iniziavi a farlo, tutti venivano
lì a correggerti, ma nessuno t’invitava a imparare, anzi, a volte t’insegnavano
male perché i trucchi del mestiere andavano conquistati. Per fortuna a
insegnarmi c’era mio nonno che i trucchi non li voleva tenere solo per lui,
allora mi diceva: “Vai a vedere come quello là ha messo la mola, vai a vedere che
non è dritta, ma lui l’ha messa un po’ fuori asse per lavorare di spigolo,
perché così toglie il gioco”.
Erano insegnamenti essenziali.
La nostra società, purtroppo, sta perdendo l’entusiasmo di
trasmettere l’esperienza, forse perché c’è poca domanda d’imparare
dall’esperienza. Molti pensano d’imparare non tanto dalla lettura, dai libri,
perché si legge sempre meno, ma addirittura da una ricerca su Google o da
Wikipedia. Ma non sanno che, senza l’esperienza, è impossibile raggiungere
risultati eccellenti: non basta copiare da internet una ricetta di Bottura per
preparare un piatto uguale al suo; così come una boccola copiata non sarà mai
come quella di Diego Zoboli.