OLTRE L’IDENTITÀ COLLETTIVA E IL MARTIRIO, LA PARTICOLARITÀ DELLA PAROLA
Lei insegna Storia delle idee all’Università di Göteborg
e ha pubblicato diversi libri che analizzano gli effetti delle idee nella
nostra società, come Death in Beirut (2007). Da dove viene il suo particolare
interesse per il Libano? Sono svedese-libanese: mio padre è libanese. Death
in Beirut è un saggio in cui ho provato a ripercorrere sia la mia storia
sia il modo in cui il paese è lentamente sprofondato in una devastante guerra
civile. La mia ambizione era quella di delineare le differenti forze in gioco
durante quel periodo in Libano.
A quale periodo si riferisce? Mi sono concentrato
sulla guerra civile, quindi soprattutto sul periodo che va dal 1958 al 2005,
anno in cui il primo ministro Rafic Hariri venne ucciso. Il mio approccio si avvale
di differenti prospettive, per cogliere il modo in cui i meccanismi di
mobilitazione e polarizzazione hanno condotto a questo incubo di guerra
settaria. Per esempio, utilizzo alcuni termini di Roland Barthes per analizzare
come l’interazione dei segni, l’impero dei segni settari, abbia perseguitato la
nazione prima della guerra, durante e dopo.
Lei ha utilizzato i termini di Roland Barthes perché ha
analizzato la logica del potere? Come teorico del potere non è l’autore più
importante per me, ma lo è per la funzione che ha attribuito al segno come una
sorta di linea di demarcazione, un modo per ostentare un’identità, suscitando
divisioni. E, una volta che i libanesi si trovano intrappolati in questa
logica, sono sulla strada per l’inferno: se loro costruiscono un’altra moschea,
noi dobbiamo costruire una nuova chiesa, e così via, finché un giorno tutto
arriva a essere fuori controllo. Inizialmente, l’antagonismo si esprime
attraverso segni e parole, poi la dialettica diventa quella della violenza,
confermando il classico detto di Clausewitz: “La guerra non è che la
continuazione della politica con altri mezzi”. E poi bisogna considerare che la
costituzione libanese riconosce ufficialmente circa una ventina di gruppi
religiosi diversi, ciascuno dei quali con la propria ragione di partecipare
alla dialettica dei segni, con tutta la sfiducia e l’odio che genera. Una
dialettica che, per giunta, si estende a dimensioni regionali e globali: la
Guerra Fredda, il conflitto israelo-palestinese, lo stallo Iran-Arabia Saudita,
le forze siriane costantemente in gioco e così via. In gran parte la guerra
civile è stata una guerra per procura.
In questo momento sta tenendo un corso su Sigmund Freud… Sto
tenendo seminari e conferenze sull’opera Das Unbehagen in der Kultur (Il
disagio della civiltà) di Freud, pubblicata nel 1930. È un’opera di estremo
interesse, forse una delle più importanti del XX secolo. È talmente ricca che
non ci si stanca mai di leggerla.
Affronta una serie di problemi cruciali, tra cui molte delle
questioni che ci stiamo ponendo oggi in Europa.
Tra l’altro, trovo interessante il modo in cui Freud cerca
di delineare la genealogia della morale occidentale attraverso l’analisi
dell’influenza della cultura sulla psiche dell’individuo.
E sottolinea il prezzo che noi tutti dobbiamo pagare per
diventare cittadini “normalizzati” di una comunità, prendendo in considerazione
gli effetti visibili e invisibili che scaturiscono dalla più basilare
precondizione di ogni civiltà: abnegazione e rinuncia al desiderio individuale.
Questo è ciò che egli intende con il termine “Unbehagen”
(“disagio”). Tuttavia, egli non cerca rifugio da questo conflitto introducendo
una sorta di riconciliazione immaginaria tra il sé, il desiderio e la
collettività. Al contrario, indica una difficile situazione che gli antichi
greci chiamavano aporos, cioè la mancanza di una via d’uscita, l’assenza
di una soddisfacente soluzione che valga una volta per tutte.
Vivere in una società significa essere in una situazione in
cui le nostre aspirazioni alla “totalità”, alla felicità e alla soddisfazione
non possono mai essere esaudite, né dalla realtà né dall’Altro. Tornando alla
guerra civile in Libano, la dialettica immaginaria dell’identità può essere
considerata come un modo per gestire questo impasse dipingendo l’Altro come la ragione
per cui non si ottiene la tanto desiderata “totalità”. Questo aspetto si trova
anche nel populismo odierno, quando i leader fanno appello al disagio dei
cittadini promettendo una via di uscita.
Quando espongo questo tipo di questioni agli studenti di
oggi, spesso reagiscono da veri puritani, respingendo Freud come moralmente scorretto:
“Deve esserci una via di uscita!”, dicono. Come se il pensiero da
prendere sul serio fosse soltanto quello che identifica e proclama il bene
comune. Paradossalmente, questa tendenza è proprio ciò che Freud scopre nella
sua genealogia della morale. Quel che è cruciale nell’opera di Freud è che ci
costringe a gestire lo stallo tra il desiderio individuale e l’identità
collettiva attraverso la sua dimensione singolare. E non si arrende mai alla
soluzione più classica: il sogno di una vita fuori dalla civiltà, il cosiddetto
ritorno alla natura. Collegandolo alla conferenza di Armando Verdiglione a
Modena (Il disagio e la modernità, 15 aprile 2018, Teatro Comunale
Luciano Pavarotti), potremmo dire che Freud c’insegna che non esiste una e una
sola soluzione, c’è soltanto un modo particolare a ciascuno di
affrontare le difficoltà della vita di giorno in giorno, per cui la
particolarità deve necessariamente passare attraverso “la parola”. La tua parola.
Per questo posso dire che ho ascoltato un impeto freudiano nelle parole di
Verdiglione.
Qual è l’argomento che esplora nel suo libro The
noble death (2013), invece? In questo libro ho indagato il modo in cui
la teologia, la filosofia e la politica hanno affrontato la morte nella storia
europea, attraverso la lente del martirio. Mi sono concentrato soprattutto sul
concetto di martirio all’interno della storia cristiana e occidentale, esaminando
alcuni suoi tropi essenziali, come la morte in nome di Dio, della verità, della
nazione, della razza o della libertà. Ho cercato di chiarire il modo in cui
questi differenti tropi erano interconnessi e quindi mi sono posto la questione
di ciò che accade nelle nostre moderne società secolari, dove sembra non sia
rimasta alcuna idea per cui valga la pena morire. La domanda: “Per che cosa possiamo
morire?” implica allo stesso tempo la domanda: “Per che cosa possiamo vivere?”.
E, naturalmente, se non possiamo più fare riferimento ai nostri vecchi dei,
siamo costretti a inventare una risposta rigorosamente singolare al dolore
insito nella vita per darle un qualche valore. E, ancora una volta, mi
ricollego alla conferenza di Verdiglione, il quale notava che il radicalismo e
il purismo devono fare in modo che la vita valga la pena.
Credo che l’idea del martirio sia un mezzo teologico e
politico per eludere l’intera questione, cioè un modo per dare un significato
collettivo alla vita dando un significato alla morte. È una caratteristica
saliente nel discorso politicizzato perché promette una via d’uscita
dall’impasse del desiderio, proponendo soluzioni immaginarie: morendo in nome
della comunità, dissiperai una volta per tutte il divario che ti separa
ontologicamente da una determinata totalità (Dio, la tua nazione, la tua
razza, o anche la tua classe, e così via). Personalmente, non credo che il
cristianesimo avrebbe avuto lo stesso sviluppo senza il ruolo costante che ha
svolto il martirio, a partire da quello di Cristo per continuare con quello dei
suoi seguaci.
E questo potrebbe essere vero anche per altre linee di
pensiero, come la filosofia, che in un certo senso inizia con il martirio di
Socrate, figura fondatrice e modello naturale per i filosofi attraverso i
secoli. La nobile morte dell’adorato martire diventa il collante che tiene
insieme la comunità.
L’attuale ondata di estremismo di destra in Europa è, tra le
altre cose, una reazione al capitalismo e alla modernità, accusati della
decostruzione delle vecchie collettività. Una vita guidata solo dall’interesse
personale razionale appare vuota e superficiale, in particolare per i segmenti
più vulnerabili della società che non possono competere con i vincitori della
globalizzazione.
Non dimentichiamo che il discorso fascista è sempre stato
desideroso di abbracciare e incoraggiare il più grande sacrificio da parte di tutti:
essere un martire per la nazione.
Il fascismo, sia laico sia religioso, si rivolge a queste
masse di sradicati e promette che c’è qualcosa oltre la loro povera esistenza a
cui aggrapparsi, una comunità organica alla quale appartengono naturalmente,
che dà uno scopo più elevato alla loro vita.
Lei ha esplorato vari argomenti nelle sue opere. Qual è
il tema della sua ricerca attuale? Sto cercando di dare un senso al concetto
di destino nella filosofia, nella psicanalisi, nella letteratura e nella
politica. Non solo destino nel senso di “provvidenza” o qualcosa di ordinato
dall’Onnipotente. Sono anche affascinato dal cambiamento radicale che
caratterizza la modernità, dove il destino diventa qualcosa che noi, come
esseri umani, possiamo “prendere nelle nostre mani”. In questo preciso momento,
sto analizzando i testi di scrittori della prima epoca moderna, come Pico della
Mirandola e Niccolò Machiavelli, i quali sostengono che il destino (“la
Fortuna”) non è soltanto qualcosa che ci accade, ma qualcosa su cui possiamo
intervenire.
“La fortuna dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata
virtù a resisterle”, scrive Machiavelli.
Destino anche in senso di destinazione? Sì, o
addirittura assenza di destinazione.
In Jacques Derrida troviamo il concetto di destinerrance,
il destino come possibilità minacciosa di un’errance senza fine, dove il
tempo è sempre fuori squadra e il desiderio non trova mai il proprio oggetto
perduto.
E dunque torniamo ancora una volta a Freud e al posto che
occupa nella sua opera il nostro destino – o sorte (in italiano nel
testo, ndr) – profondamente vulnerabile e spesso tragico.
Il destino come disagio (in italiano nel testo, ndr).