IL TEMPO CHE NON VALE LA PENA
Chi conta di più? Quanto conta quel che facciamo? I conti
tornano? L’idea comune di conto lo considera strumento per misurare o
risparmiare il fare, per giustificarlo, per finalizzarlo.
Nella formulazione “In fin dei conti” spetterebbe al conto
sancire la fine per decidere il valore delle cose, del fare, del viaggio.
Questo conto presunto obiettivo è conto sul tempo, conta sulla fine del tempo,
per poterlo misurare e dunque risparmiare.
Ma il risparmio di tempo non paga: il processo di
valorizzazione esige l’investimento, non il risparmio. Il conto non è fondante:
del conto importa la redazione sintattica e frastica, mentre nel pragma esso si
scrive come racconto, indispensabile per il profitto. Il racconto è pragmatico,
instaura il tempo del nostro viaggio imprenditoriale e intellettuale. E il
conto non si risolve nel tornaconto.
L’idea di risparmio, che invoca il tornaconto, poggia
sull’idea di fine del tempo e delle cose. Nutre la condanna dello spreco, che
viene postulato per economizzare il fare, per sottoporlo all’idea di ciclo, di riciclo,
di circolarità: nel postulato della fine delle risorse, l’economia circolare mira
al risparmio più che al profitto, alla conservazione più che alla produzione,
al mantenimento più che all’aumento. Ciascuna cosa deve sottoporsi all’idea
guida, la sostenibilità, parametro che dovrebbe decidere della virtù e
dell’intelligenza dell’economia, che diventa alibi per l’autorizzazione o la
revoca di concessioni o finanziamenti. L’economia sostenibile è l’economia del
tempo che può finire, che parte dalla fine delle cose. È l’economa gnostica,
che conosce il bene e il male perché conosce i limiti propri e altrui.
Nel gerundio, ovvero parlando, contando, facendo, il limite
è del tempo, cioè è inassegnabile, inconoscibile, non sottoposto al principio
di determinazione o d’indeterminazione. Ma l’economia gnostica sostituisce al
limite del tempo il tempo limitato, sostituisce al tempo una sua idealità.
Ognuno vive, anzi sopravvive, di idealità temporali: il proprio tempo, i propri
limiti, le proprie possibilità. Ma in questo modo si occupa, idealmente, di sé,
dell’idea di sé, anziché attenersi all’occorrenza, al tempo dell’esperienza che,
come sottolineano gli imprenditori in questo numero, è il tempo della riuscita.
L’idea di sé pretende di stabilire l’identità, come aspetto
dell’uguaglianza con se stessi, sotto il principio dell’unità.
“Dialettica immaginaria”, che sta alla base dei populismi,
definisce l’identità lo storico delle idee Michael Azar nel suo intervento sul
totalitarismo. Ma, come nota Luigi Pirandello in Uno, nessuno e centomila, l’identità risulta il colmo della
differenza. L’unità non evita il paradosso: contando, l’uno è una funzione, non
è identico a sé, differisce da sé. Già il matematico italiano Giuseppe Peano, all’inizio
del Novecento, aveva notato come il conto non comincia e non procede dall’unità,
come credono l’ontologia occidentale e la mistica orientale. Il conto esige lo
zero e il due, che sono negati da ogni fondamentalismo. I fondamentalismi (europeo,
islamico, confuciano, induista) procedono dall’unità, negando il due,
l’apertura, in nome dell’identità e dell’unità, e del loro prodotto, la
comunità.
Come dimostra la storia del dispotismo orientale, l’islam ha
mancato l’industria perché la comunità ideale, la umma, in nome dell’identità e
dell’unità, esclude il tempo pragmatico, il fare, la novità, restando nel tempo
burocratico, eterno, ideale. Ma anche in Europa l’idea di comunità, procedendo
dall’ideologia dell’unità, costituisce un frequente pregiudizio contro
l’impresa, la città e la modernità, edificando caste, burocrazie, centralismi
sulla negazione del tempo.
La burocrazia, anche quella mediaticogiudiziaria, non ha
presa sulla parola.
Procedendo dal due, dall’apertura, il conto e il racconto
non escludono, bensì esigono, il terzo, la differenza e la varietà, il tempo
dell’impresa. Attenendosi al tempo dell’impresa, “il tempo imprevisto, sorprendente,
pragmatico”, come scrive nel suo articolo Mariella Borraccino, l’imprenditore
non risparmia né si risparmia, non trattiene e non si trattiene, cioè non
partecipa all’idea di fine. I flussi dell’impresa non si attengono alla finalizzazione.
Nessuna mistica dell’impresa: solo se venisse tolto il tempo, in nome della
fine, l’imprenditore potrebbe inseguire lo spirito o l’anima dell’impresa, negando
la sua industria, la sua struttura materiale e intellettuale. Quel che è
intellettuale non si oppone a quel che è materiale, operativo, pragmatico: la
macchina e la tecnica non sono inerti, scontate, senza la parola, esigono
l’intelligenza.
Intelligenza della macchina e della tecnica, più che
macchine e tecniche intelligenti, come vorrebbero le mitologie ipertecnologiche
e transumaniste.
L’intelligenza non è emotiva, non è la coscienza né la
conoscenza, tanto meno del bene e del male: la conoscenza è purista e
purificatrice. “Conosciti!”, “cercati!”, “studiati!”, “purificati!”, insomma
“annullati!”. Ecco la mistica: l’impresa che cerca il suo spirito trova il suo
nulla.
Contando, raccontando, le cose si fanno e, facendosi,
interviene il tempo. Il tempo non è a priori, come voleva Immanuel Kant. Il
tempo è pragmatico perché interviene con il gerundio, raccontando e facendo.
Dunque il racconto non è la trama dei fatti ben disposti nel tempo, come
prescrive lo storytelling, così diffuso nella comunicazione aziendale, ma è
intessuto del sogno e della dimenticanza, con cui si scrivono il progetto e il
programma dell’impresa, ben oltre l’intenzionalità. Il tempo pragmatico non è
il tempo soggettivo, per questo travolge le buone intenzioni, che si limitano alle
possibilità e alle finalità. Il tempo pragmatico è il contingente, è il tempo
dell’occorrenza, l’Altro tempo, non il tempo finalizzato, che è il tempo funzionale
al nulla. Da Aristotele in poi, nessuna burocrazia può ammettere il
contingente, lo combatte, contrapponendogli il principio del terzo escluso, la
necessità che i conti tornino, ovvero la necessità della pena. Invano: con il contingente
la pena non vale, conta il valore.