LE RAGIONI DI UN TENACE ACCANIMENTO

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filosofo, docente emerito di Dottrina dello Stato all’Università di Bologna

La mia solidarietà con Armando Verdiglione incominciò tanti anni fa, verso la metà degli anni ottanta, con due circostanze abbastanza precise, che ricordo perché sono un po’ il filo originario di questo rapporto.
Il primo episodio fu quando, nel 1988 la casa editrice Spirali organizzò a Bologna una presentazione di libri di dissidenti sovietici. Allora ero responsabile culturale del Partito Comunista a Bologna e fui l’unico ad aderire immediatamente all’incontro e a partecipare al dibattito. A me sembrava ovvio partecipare: dopo decenni in cui verbalmente il Partito Comunista Italiano criticava il modello russo, era l’occasione perché finalmente si uscisse da quell’equivoco, da quell’angustia. Eravamo nel periodo berlingueriano, quindi ci sarebbero state le condizioni per parlare in modo assolutamente libero.
Invece, quella partecipazione fu una delle cause non ultime delle mie disgrazie politiche successive.
La seconda circostanza fu quando, a seguito delle prime vicende giudiziarie di Verdiglione, sia il mondo della politica sia il mondo dell’accademia con il quale collaboravo si defilarono: come se la questione di un arresto di un intellettuale e di una serie di misure persecutorie mostrate dalla televisione in modo selvaggio non dovesse interessare la coscienza di un cittadino libero. Pur non conoscendo allora nel dettaglio le posizioni e i riferimenti, sentii mio dovere sottoscrivere un manifesto di solidarietà nei suoi confronti che chiedeva la scarcerazione, indipendentemente dal merito. Non si mette in galera qualcuno per le sue opinioni.
Per di più, era stata costruita un’accusa di plagio, di circonvenzione d’incapace, una serie di reati mostruosi, assurdi, abnormi, che venivano ventilati senza poi arrivare mai al dunque, come non si era mai arrivati al sodo nelle accuse nel processo a Socrate ad Atene: cattiva educazione, cattivo insegnamento, corruzione dei giovani. In realtà, che cosa aveva fatto Socrate? Aveva parlato, parlava in piazza tutte le mattine.
Con Verdiglione vedevo quasi ripetersi, fatte le debite proporzioni, il più misterioso e drammatico processo della storia in una situazione a noi vicina. E quindi firmai con assoluta convinzione un documento che sottoscriverei ancora. Queste sono le circostanze – tutte politiche, tutte libertarie, tutte in difesa dei diritti – per le quali mi sono impegnato pubblicamente.
Poi, sono stato invitato qualche volta ad alcuni convegni alla Villa San Carlo Borromeo di Senago, e ho potuto constatare di persona il clima culturale straordinario, inimmaginabile, di questi eventi. In particolare ricordo un incontro con intellettuali russi: c’era uno storico francese, Jean Ellenstein, che consideravo un punto di riferimento fondamentale perché è il primo storico comunista che ha scritto sulle deportazioni russe. Meglio di Solzeniçyn, che diventò famoso, ma la documentazione di Ellenstein era straordinaria e io ho potuto parlare con lui in questo splendido luogo.
Ora, è indubbio che l’impresa culturale di Verdiglione, di Cristina Frua De Angeli e di altri che collaborano è un unicum, è qualcosa che non ha molti confronti nella storia della cultura italiana. Aver trasformato la cultura in congressi, convegni, libri, biblioteche, mostre d’arte, acquisizioni di arte, restauri di opere antiche, è un’impresa gigantesca.
Leggete nel libro L’Operazione guru la testimonianza di Frua De Angeli sulle attività della Villa: è impressionante, non ha confronti per numero, qualità e quantità di interventi.
Ebbene, che questa storia straordinaria debba finire con un’accusa di associazione a delinquere è una vergogna per l’Italia, per la cultura italiana, per il nostro sistema giuridico.
Circonvenzione d’incapace è un reato abnorme, ma considerare un’associazione a delinquere questo movimento culturale è assurdo.
Mentre ben altre associazioni a delinquere in questo paese ricevono onori, cariche e candidature. Quindi, questo è un motivo morale per rendere doveroso il riconoscimento a una persona che, al di là delle simpatie o degli schieramenti di scuola, rappresenta oggi un terreno su cui si misura la libertà politica nel nostro paese.
Mi sono spesso chiesto quali siano le ragioni di un così tenace e continuo accanimento, perché certe volte nella drammaturgia del potere intervengono logiche a noi incomprensibili.
Non si può ricondurre questa vicenda semplicemente allo scontro di una parte politica contro un’altra, che è una delle sceneggiate più evidenti della lotta politica. Non può essere ricondotto neanche a una questione di poteri accademici. Il professor Verdiglione e i suoi collaboratori hanno sempre lavorato in assoluta indipendenza, non sono mai stati espressione di accademie, di poteri forti o deboli, di chiese, di confraternite, di partiti, di massoneria. È forse questo che dà fastidio? Come può in questo paese una persona riuscire a realizzare un capitale di esperienze umane e formative così significative senza avere gli avalli, senza stare alle logiche di un potere che si autoriproduce, si autotutela? Allora, ha un suo peso, non so fino a che punto, quella categoria morale che più volte Verdiglione nei suoi saggi cita: l’invidia, l’invidia di chi, nonostante i titoli, nonostante le forme, nonostante le anticamere nei palazzi del potere, non riesce a raggiungere la sua notorietà. Nel 1986, me lo ricordo bene, quando nel mondo si parlava di psicanalisi italiana, non è che si parlasse di Cesare Musatti, al quale vanno tanti meriti, però gli psichiatri nostrani se la cantavano un po’ fra di loro. L’unica istanza culturale che, a torto o a ragione (io non sto entrando nel merito dei contenuti), aveva una risonanza dal Giappone alla Francia era quella di Verdiglione.
È stato un progetto straordinariamente grande, che ha suscitato sicuramente risentimenti, invidie e altri sentimenti umani poco nobili.
A cui si aggiunge poi la stravagante bizzarria di un nostro sistema in cui la parola giustizia, che deriva da ius, che deriva da phas, da qualcosa che è divino e sacro, è diventato uno dei labirinti al cui confronto i processi di Kafka sono qualcosa di troppo lineare e troppo semplice. “Cosa c’è dietro all’uso della giustizia” è un tema che mina le basi democratiche del nostro povero paese, perché la parola giustizia indica un concetto filosofico importante, ma sta a significare un apparato, che chiamare il terzo potere è un’espressione impropria, valida solo in senso illuministico.
In realtà, la giustizia è il primo vero e grande potere, lo è sempre, dappertutto.
Perché anche quando non ci sono le leggi, chi giudica c’è sempre.
È l’espressione evidente di un potere che talvolta diventa persino invasivo anche nei confronti degli altri, con un misto d’incapacità e di ambizione dimostrato da tanti, tanti altri episodi.
In questi anni, leggendo i libri più recenti di Verdiglione, non tanto quelli sulla cifrematica o sulla psicanalisi in senso tecnico, devo dire che, finalmente, ho chiarito abbastanza bene, almeno dal mio punto di vista, come la posizione filosofica che sta alla radice di tutte le argomentazioni di Verdiglione sia riconducibile alla genesi stessa della filosofia, venticinque secoli fa, in Grecia. Da allora, le vie che i filosofi hanno intrapreso si sono subito divise in due grandi categorie, quella ontologica e quella umanistica. Le vie ontologiche sono quelle che incominciano parlando della natura, parlando di Dio, parlando di cose che in realtà non sono dicibili. Chi scrive “In principio Dio creò il mondo” non può parlare del principio, perché così si mette dal punto di vista di Dio, dal punto di vista del potere. L’ontologia è un modo di prescindere dalla nostra debole posizione umana parlando dell’essere, parlando dell’ente, sia esso di tipo naturale o spirituale.
Quindi, è un esercizio di potere, è un proiettare nel mondo ontologico qualcosa che è nell’uomo. Dunque, quella di Verdiglione è una filosofia umanistica, non ontologica, che però non si perde nell’esaltazione del lavoro o della tecnica, ma che individua nell’uomo quella capacità primaria, fondamentale, che è la costituzione della parola e del suo linguaggio; è quello che ci rende veramente umani. Chi oggi vuole occuparsi davvero di cultura e di filosofia deve ripartire dall’interrogazione socratica “Ti estì?”, ovvero “Che cos’è?”. Che cos’è che ci rende civili? Che cos’è che ci rende liberi? È la parola, la capacità di argomentare, la capacità di convincere. Non si vince con la repressione, non si vince con la retorica, si vince con la convinzione.