L’AUDACIA DI CAMBIARE
Ho scritto questo libro in 40-50 giorni, ma avrei avuto
molte più storie da raccontare. Ringrazio Giorgio Antonucci, purtroppo scomparso
recentemente, quando ha detto che senza il mio aiuto lui sarebbe stato nulla.
Anch’io sarei stato nulla senza avere avuto la mia squadra, una squadra che ha difeso
molto il nostro lavoro, che non è mai stato facile, e quello che siamo riusciti
a fare.
In un istituto psichiatrico, com’è sempre accaduto e come
accade ancora, situazioni di forte disagio non possono essere affrontate con
soluzioni standard, come avviene solitamente con le malattie organiche.
Ciascuna persona ricoverata aveva e ha esigenze proprie e aveva e ha traguardi
di vita differenti. Abbiamo sempre cercato di valorizzare ciascuno affidato
alle nostre cure partendo dalle sue capacità, che esistono sempre. Ho cercato
in ciascuno dei ricoverati attitudini peculiari, a partire dalle quali
facevamo, insieme, cose che risultavano quasi sempre ben fatte.
Scrivere un libro non è stato facile, soprattutto per me che
non sono uno scrittore. Mio figlio e altri mi hanno aiutato a dare forma al
testo. Ho pensato di partire dalle brutte esperienze dei primi giorni in cui sono
entrato in istituto, quando avevo vent’anni, catapultato in una situazione da
girone infernale, dove ho pensato se continuare o no, considerando che mi
trovavo bene con il lavoro che svolgevo prima, in una situazione completamente differente.
Ma avevo sostenuto un esame che era andato bene, con un buon punteggio, e abbandonare
a quel punto mi sembrava uno spreco.
Ho lavorato quasi dieci anni in una situazione manicomiale
difficilissima, finché non siamo riusciti a indirizzare al cambiamento medici
giovani e a rompere gran parte degli schemi della vecchia psichiatria, degli
antichi reparti, dove gli estranei non potevano entrare per nessun motivo.
Riuscimmo a togliere dalle fasce di contenzione alcuni pazienti entrati oltre vent’anni
prima, pur con difficoltà, perché una persona abitualmente legata al letto, una
volta slegata, prova un grande disagio. Molti chiedevano di mettere loro di
nuovo le fasce alle braccia. Per far tenere loro gli indumenti addosso dovemmo
lavorare con un impegno veramente incredibile. Dal 1976 al 1980, nel reparto 3
cominciammo a formare le equipe che uscivano nel territorio per cercare i
riscontri riguardanti le persone che provenivano da quel territorio. Non c’era
ancora la Legge 180, ma soltanto la cosiddetta “piccola riforma” del 1974,
dove, secondo l’articolo 4, le persone potevano essere ricoverate non più
soltanto come coatte, ma anche come volontarie.
Nel 1980 a Imola iniziò quella che chiamammo “rivoluzione”: la
nascita del reparto autogestito, con novanta persone, metà donne e metà uomini.
Per l’opinione pubblica fu un grande scandalo, perché in un ospedale
psichiatrico fu istituito un reparto misto di uomini e donne.
Contemporaneamente, all’Osservanza, iniziò la “rivoluzione” di Giorgio Antonucci
e del suo collega Edelweiss Cotti. Cominciarono ad abbattere i muri, le ringhiere,
poi iniziammo noi del reparto 9, intanto diventato reparto autogestito.
Abbiamo così trasformato quella che fino ad allora si era
configurata come una classica “istituzione totale”.
Ma il lavoro non era terminato. Alcun ricoverati erano
autosufficienti già da prima, per loro fortuna.
Ma la stragrande maggioranza aveva bisogno di essere
accompagnata dappertutto.
Nessuno di loro possedeva un indumento.
Alcuni, quando abbiamo introdotto gli armadi, non capivano
quali erano i loro e indossavano la prima cosa che trovavano.
Trenta, quaranta, cinquant’anni di manicomio li avevano
portati a questo.
Alla fine del libro ho scritto: “Sono contento di avere
disubbidito al sistema per il loro bene”. Con questa frase, che non significa
“disubbidire per disubbidire”, mi rivolgo soprattutto ai giovani, medici,
infermieri, operatori sociali, perché occorre sempre avere l’audacia di cambiare,
quando è opportuno.