ESEMPI DI ACCOGLIENZA SECONDO L’HUMANITAS
Il libro di Giovanni Angioli è importante non soltanto
perché raccoglie gli elementi principali della sua vita, ma anche perché è un
racconto, un’autobiografia, una testimonianza del suo lavoro, attraverso cui
offre spunti, riflessioni e un metodo a chi si avvicina alle istituzioni
totali, di cui c’è ancora molto da dire, nonostante la nostra democrazia.
Uno dei problemi principali in questo ambito rimane il
ricovero coatto, che avviene attraverso il TSO (Trattamento Sanitario
Obbligatorio).
Parliamo di persone che vengono prelevate con la forza,
portate via dalla loro famiglia, dal loro ambiente, quindi trattenute, sempre con
la forza: persone a cui vengono iniettate sostanze contro la loro volontà.
Parliamo di tortura. Recentemente in Italia è stato redatto
un Disegno di Legge contro la tortura, già presentato in Senato. Se passa alla
Camera, questa iniziativa deve riguardare anche la psichiatria, perché la
convenzione dell’ONU considera tortura qualsiasi sostanza che venga iniettata
nel corpo contro la volontà della persona. Questi argomenti vengono affrontati
anche nel libro La chiave comune con una scrittura molto fluida e
semplice, nonostante i temi trattati. Leggiamo di persone ricoverate per anni, di
cui Angioli dà testimonianza a partire dalla sua lunga esperienza presso
l’Ospedale di Imola e, in particolare, presso il reparto autogestito, esperienza
a cui ho partecipato anch’io, negli ultimi quattro anni. Al reparto autogestito
venivano “buttate” dagli altri reparti persone che gli psichiatri ritenevano di
non essere più in grado di gestire. Il libro narra le storie di queste persone,
in molti casi anche le storie pregresse, prima del ricovero, tratte dalle loro narrazioni,
tratteggiate da Angioli con grande sensibilità ed efficacia.
Storie che parlano d’isolamento, d’incomprensione, spesso di
soprusi familiari e sociali, senza contare quelli subiti all’interno
dell’istituzione, ma anche di talenti pregressi.
Penso che questa azione di presa in carico, di accoglienza
attiva da parte del personale del reparto autogestito possa essere ancora un
esempio in vari ambiti, specialmente in questo periodo di grandi flussi
immigratori.
Il lavoro svolto all’autogestito è stato di umanità nel
senso più ampio della parola. Non c’era superficialità nell’accoglienza, non
c’era la volontà di accogliere tanto per accogliere, per un generico buonismo,
anzi, per ciascun caso si discuteva molto, c’erano dubbi. C’erano le assemblee,
le discussioni, le occasioni di parola per ciascuno, invitato a esprimere le proprie
problematiche, i propri dubbi, le proprie paure. Fin dall’inizio del mio
tirocinio presso il reparto, nel 1992, sono sempre stata accolta con attenzione
e invitata a partecipare, a esprimere il mio parere, ma, in questa prima fase,
ritenevo di avere soprattutto da imparare. Il reparto era già rodato e ben
funzionante, ma, per costituirlo, c’era voluto un grande lavoro organizzativo,
di elaborazione e di superamento di grandi resistenze, istituzionali e
burocratiche.
A proposito di questo lavoro, occorre parlare di Giorgio
Antonucci, entrato nella storia per il suo operato, per la sua testimonianza
costante e per i suoi scritti, purtroppo recentemente scomparso, che a un certo
punto assunse la responsabilità di tutto l’andamento del reparto. Ricordo che
Antonucci ringraziò Giovanni Angioli, nel momento del conferimento del premio a
lui intitolato, perché senza la sua alleanza egli stesso non avrebbe potuto
spingersi fin dove è arrivato.