LA SCOMMESSA SULLA PAROLA, NON SULLO PSICOFARMACO
Giovanni Angioli ha scritto un libro di grande rilievo: La
chiave comune. Esperienze di lavoro presso l’Ospedale psichiatrico Luigi
Lolli di Imola (La Mandragola). Lo ringraziamo per essere venuto a
discuterne nella nostra libreria. Si tratta di un libro testimonianza, che
narra una vicenda umana e professionale straordinaria, dipanatasi lungo gli ultimi
decenni del novecento, svolta sia come missione sia come reinvenzione di un
lavoro difficile e di grande responsabilità.
Giorgio Antonucci, accanto a Angioli, protagonista assoluto
di questa vicenda e purtroppo recentemente scomparso, scrive nella prefazione al
libro: “Io avevo già avuto esperienze che mi avevano fatto capire la realtà di
questa istituzione, mentre Giovanni Angioli venne catapultato in un mondo
completamente diverso da quello che aveva studiato nei corsi per infermiere: il
lavoro si rivelò tutt’altro che assistenziale”.
Dal libro, tutto ciò si rileva molto bene: attraverso la sua
attenzione alle persone e alle situazioni che vivevano in quell’ambiente,
Giovanni Angioli ha fatto cose all’opposto di ciò che allora s’insegnava ai
corsi per infermieri psichiatrici. Per sensibilità individuale, per talento,
lavorando, facendo, ascoltando, Angioli ha intuito qualcosa di essenziale, che poi
il lavoro e l’elaborazione teorica di Antonucci avrebbero confermato: la parola
e l’ascolto, l’attenzione senza pregiudizi rivolta all’altro e la considerazione
per la dignità della persona riconoscono all’interlocutore, a maggior ragione
all’interno d’istituzioni totali come quelle manicomiali, la qualità di “essere
pensante”.
Qui incomincia la rivoluzione di Antonucci, di Angioli e di
altri, che dissipa con decisione lo stigma che ha preteso a lungo, e nel luogo comune
pretende ancora, che alcuni, pur a pieno titolo cittadini di un territorio o di
una comunità, vengano dichiarati e certificati incapaci d’intendere e di
volere. Tanto da essere, fino a pochi anni fa, internati in luoghi come i
manicomi e la loro punta peggiore, gli istituti psichiatrici giudiziari.
La vicenda del libro si dipana lungo alcuni decenni, che
sono gli anni di attività di Angioli nel manicomio di Imola, in entrambi i
padiglioni che lo componevano, l’Osservanza e il Lolli, portando novità in
ciascuno di essi e cogliendo la specificità di ciò che stava avvenendo negli anni
1960-1980, chiamati poi, con un po’ di approssimazione ottimistica, anni di
“demanicomializzazione”.
Il libro è importante anche per la memoria, quasi
l’evocazione, dei colleghi con cui Angioli ha lavorato nella sua lunga
attività, compresi alcuni medici. Ma i veri protagonisti del libro sono
gl’internati incontrati da Giovanni Angioli, di cui, lavorando, ha scoperto
talenti inaspettati, con le loro storie, anche pregresse al ricovero, le loro
testimonianze e la ricchezza conferita, finalmente con l’occasione di parola, a
chi li ascoltava.
Come emerge dal libro, a Imola è stato istituito, con il
contributo di Angioli, di Antonucci e di altri, uno dei poli più importanti,
anche internazionalmente, del ricordato processo di “demanicomializzazione”.
Altri – come Ronald Laing, David Cooper, Jean Oury, Felix
Guattari, François Tosquelles, Maud Mannoni, Fernand Deligny – diedero il loro
contributo, ma a Imola questa esperienza ha avuto caratteristiche assolutamente
peculiari, come, per esempio, l’uscita progressiva degl’internati, la loro
“liberazione”, come era accaduto pochi anni prima a Gorizia e a Trieste, ma
anche la trasformazione della loro vita quotidiana, il cambiamento di rapporti tra
ospiti e personale, la modificazione del modo di rivolgersi reciproco tra le
persone, la trasformazione del linguaggio di comunicazione e, infine ma non
ultimo, la scommessa sulla parola più che sullo psicofarmaco o sull’esclusione
sociale.