LA VENDITA E IL RISCHIO COME CURA
Con quasi novant’anni di storia, la vostra azienda, la
Brunetti Utensileria, ha contribuito alla riuscita del tessuto industriale dell’Emilia
Romagna, diventando partner di riferimento per il proseguimento di tante
imprese del settore meccanico.
Quanta cura è stata necessaria per costruire un’azienda
che ha attraversato quasi un secolo di storia? Ho quarantaquattro anni e
tutte le mattine, quando mi sveglio, penso che continuo l’opera di mio nonno e di
mio padre, lavorando nell’azienda di famiglia. Proseguire per quasi un secolo
l’attività imprenditoriale è un aspetto che oggi per molti è riconosciuto come
un valore, ma talvolta accade anche che sia snobbato. Ricordo molto bene
quando, appena ho conseguito il diploma in ragioneria, gli amici mi dicevano che
avevo l’opportunità di lavorare in banca. All’epoca, infatti, l’impiego in un istituto
bancario era molto ambito ed era quasi assicurato a coloro che avevano conseguito
gli studi tecnici. Pertanto, gli amici mi chiedevano come fosse possibile per
me riuscire a vendere placchette o inserti di metallo, senza sapere niente di
meccanica.
Io rispondevo semplicemente che mio padre aveva bisogno di
qualcuno che gli desse una mano. Ho incominciato, quindi, a vendere i nostri
utensili durante il periodo estivo, andando agli appuntamenti insieme ai
venditori. Ma sempre mi accompagnava il pensiero di quale potesse essere il
futuro dell’azienda, perché non era scontato che riuscissi nell’attività.
Pensavo: “Vado fuori dall’azienda e parlo con persone che lavorano per ore ai torni
e alle frese” e dicevo “Mah!?”.
Che età aveva all’epoca? Avevo appena vent’anni e mi
spaventava l’idea di operare nel mercato senza alcuna esperienza meccanica, ma
con una formazione scolastica in ragioneria, in cui erano contemplati i bilanci,
i costi e i ricavi, il conto economico e lo stato patrimoniale, anziché gli
specifici pezzi di taglio o il modo per ottenere una rugosità. Mi chiedevo cosa
fosse la rugosità. Tuttavia, quando andavo a trovare i clienti, sentivo la
responsabilità di promuovere la qualità dei nostri prodotti.
Qual era il dispositivo di parola che aveva con suo
padre? Durante il giorno mi recavo dai clienti, da solo o affiancato da
tecnici delle case produttrici che l’azienda rappresentava, e, quando tornavo a
casa, mi consultavo con papà perché non accettavo l’idea di non saper
rispondere alle domande che mi ponevano.
Ogni sera ci incontravamo alle 18.00 e lui mi dedicava
mezz’ora o tre quarti d’ora per chiarire le mie incertezze oppure m’indicava
chi altri poteva aiutarmi.
Si è chiesto se la strada che stava percorrendo sarebbe
stata quella giusta? Il dubbio era continuo, soprattutto nei momenti
difficili, però mio papà, i clienti e gli amici mi hanno sempre sostenuto.
Avevo un amico con cui condividevo la passione per il basket che era titolare
di un’officina meccanica.
Ci incontravamo la sera e gli chiedevo di spiegarmi i
termini tecnici e le lavorazioni meccaniche che non conoscevo. Mi avvalevo
anche di un ingegnere eccezionale, Flavio Bianco, che purtroppo è mancato
presto ma che mi ha insegnato tanto. Di lui ricordo che aveva gli occhi lucidi quando
mi parlava, perché amava il suo lavoro e voleva che capissi bene.
Sarò sempre in debito con chi ha sostenuto la mia curiosità
e la mia esperienza.
Il suo itinerario si è snodato attraverso gli
interlocutori che ha incontrato strada facendo… Sì, sono anche stato
fortunato ad avere un padre che non mi ha mai consentito di trovare la
cosiddetta pappa pronta. Poteva suggerirmi di lavorare in azienda per occuparmi
degli aspetti amministrativi, che peraltro sarebbero stati coerenti con il mio
percorso di studi. Ma il nostro core business è sempre stato quello di vendere utensili
tecnologici. E di utensili s’impara soltanto parlandone, andando nei luoghi in
cui sono prodotti e utilizzati.
Mi sono laureato nel giugno del 1997 e il 1° luglio sono
andato a vendere con la mia valigetta, perché mio papà diceva che non c’era
altro modo per imparare questo mestiere. E io andavo, e non sapevo
nulla. Tornavo in azienda e chiedevo: “Ma come faccio? Vado dai clienti e mi
chiedono cose a cui non so rispondere”. E lui mi diceva: “Fidati di me, fai le
tue belle figure, ma vedrai che impari”. E in effetti, dopo i primi mesi, che
hanno costituito una prova ardua, ho incominciato a capire qualcosa e a
intendere quella lingua. Questa è la vera formazione.
Nell’impresa, come nella bottega, le cose si fanno
secondo l’occorrenza. L’impresa non è purista perché esige una pratica che va
oltre l’idea di bene e di male, ma secondo ciò che occorre fare. Quanto ha
inciso in questa formazione ascoltare il papà che parlava delle questioni che
incontrava nell’azienda anche quando era in casa? Ha inciso e incide ancora
tantissimo, perché noi siamo rispettivamente rimproverati, mio papà da mia
mamma e io da mia moglie, perché continuiamo a parlare di lavoro anche quando
siamo con la famiglia. Noi parliamo sempre di lavoro, anche quando ci
incontriamo al di fuori dell’azienda, perché le problematiche sono talmente
tante e complesse, come lo sono i rapporti con i collaboratori, con i
dipendenti e con i fornitori.
Ciascuna volta parliamo di vita. La cosa più difficile per
un’azienda di piccole, medie o grandi dimensioni è ascoltare i propri
collaboratori e farli crescere. Fino a dieci anni fa, avendo acquisito una
quantità notevole di clienti, ero giunto a credere che non avessimo bisogno di
collaboratori esterni, dal momento che soltanto io procuravo il 70 per cento
del fatturato.
Ma poi ho messo in questione questa convinzione. Eccetto una
quindicina di aziende, che chiamiamo direzionali e che seguo io, oggi cerco di
affidare i clienti alle cure dei miei collaboratori.
È essenziale che il collaboratore, cui abbiamo delegato
specifici compiti, sia in condizioni di risolvere i problemi.
Così è più contento, perché si qualifica e assume i valori
dell’azienda, si va “brunettizzando”, mi piace dire.
L’azienda cresce se ha nuovi collaboratori, se lavorano con
soddisfazione perché crescono nell’azienda, e intendono l’affidamento di nuovi
clienti da parte nostra come riconoscimento di fiducia. I risultati di questa
politica sono stati più che premianti.
Quanto conta la cura nel suo lavoro? È fondamentale,
nel senso che per me la cura è l’assistenza quotidiana del cliente che si
traduce nel fatto di essere sempre a sua disposizione.
Le tecnologie attuali, per esempio, siainducono a diventare schiavo
del telefono cellulare: ciascun istante ricevo messaggi tramite Whatsapp,
telefonate e mail a cui sono obbligato a rispondere subito.
È meglio evitare di dipendere dalla tecnologia, però non è
possibile privarsene. Negli ultimi due anni e sempre più spesso, noi riceviamo ordini
alle ore 17.30 e dobbiamo garantire la consegna al cliente il giorno seguente,
in tutta Italia. Questo è veramente impegnativo, perché bisogna che i fornitori
consegnino tutto entro le 13.00, in modo che il magazziniere possa preparare la
merce per la spedizione al cliente.
Quali sono le prospettive nel settore per i prossimi
mesi? Sono molto ottimista e sono convinto che questo e i prossimi due anni
saranno positivi per le imprese italiane.
Negli ultimi dieci anni, infatti, la crisi, più incisiva di
quella del 1929, ha spazzato via dal mercato un numero elevato di aziende. Ma,
intanto, tra le aziende che hanno proseguito, moltissime hanno avuto il
problema del cosiddetto passaggio generazionale al loro interno, soprattutto
nell’ambito della meccanica. Le multinazionali, che affidavano il lavoro alle
piccole e medie aziende che in seguito alla crisi hanno chiuso, si sono trovate
in difficoltà con i fornitori. Di conseguenza, si sono rivolte alle imprese
rimaste attive nel mercato, le quali hanno colto la crisi come l’occasione per
predisporre al loro interno una nuova struttura organizzativa. Il risultato è
che attualmente nel mercato della meccanica opera un numero ridotto di aziende qualificate,
che devono evadere invece una quantità notevole di ordini.
È la situazione più diffusa nelle zone di Reggio Emilia,
Modena, Parma, Bologna, Imola e Forlì. In questo contesto, cosa sarebbe bello
ipotizzare? Che i giovani avessero la possibilità di aprire nuove aziende
meccaniche, per acquisire questa grande richiesta di ordini. Rilanciare e
rischiare di riuscire ciascun giorno è ancora il modo migliore per giungere al
traguardo dei novant’anni d’impresa.