IL LAVORO E L’IMPRESA COME CURA

Qualifiche dell'autore: 
presidente di Officina Meccanica Marchetti Srl, Sala Bolognese (BO)

Nella vostra Officina meccanica, da oltre quarant’anni progettate e costruite gli stampi per la produzione di molti oggetti che utilizziamo ciascun giorno. Eppure, quante volte abbiamo constatato i pregiudizi nei media e altrove, soprattutto negli ultimi anni, verso la produzione industriale. A proposito del dibattito che apriamo in questo numero sulla questione della cura, può raccontarci quali sono le testimonianze della cura, attraverso l’industria del settore, che ha trasformato le città? Quando si parla di stampi, non è possibile non citare l’indimenticabile imprenditore Balilla Paganelli.
Nato a Mirandola nel 1914, nella metà degli anni quaranta fondò l’Attrezzeria Paganelli a Cinisello Balsamo, dove era andato a vivere con la famiglia. Paganelli è sempre stato considerato un esempio da quanti operavano nel settore e, infatti, per indicare uno stampo costruito in modo perfetto, si diceva che era uno stampo “alla maniera di Paganelli”.
Egli sosteneva che lo stampo dev’essere costruito per produrre gli oggetti che avrebbero semplificato la vita quotidiana di ciascuno. Negli anni ottanta, la sua azienda aveva raggiunto un livello tecnologico molto elevato, fornendo le aziende italiane ed europee più importanti dei settori automobilistico, degli scooter e degli elettrodomestici.
La rinomata azienda di Cinisello Balsamo impiegava un numero notevole di dipendenti e aveva ampliato i suoi locali, anche se le pesanti rivendicazioni sindacali di quegli anni, con il pretesto della successione (Paganelli non aveva figli), avevano aperto la strada a ripetute ostilità faziose – come scrive l’imprenditore nel libro La mia vita. Operaio, imprenditore, filantropo (San Paolo). Tali pressioni furono pilotate in maniera da costringerlo a vendere l’azienda, anche se ben presto ebbe a constatare: “Stavo vendendo la mia vita!”.
Cosa s’intendeva con l’espressione “alla maniera di Paganelli”? Evocava la qualità e l’armonia che contraddistinguevano la cura nel modo di lavorare di Balilla Paganelli.
Nelle nostre aziende, non è possibile produrre in modo efficiente e efficace attraverso le mere strutture organizzative, perché non c’è nulla che sia automatico: è necessario che gli uomini che vi lavorano parlino fra loro. La differenza rispetto a venti, trent’anni fa è proprio questa: la parola conta tantissimo.
Questo è stato uno dei motivi che ha prodotto il miglioramento della vita nelle nostre aziende, oltre a giovare all’invenzione di soluzioni migliori nello svolgimento del lavoro. Anche se l’avvento dell’informatica ha comportato la rincorsa all’ottimizzazione dei tempi e dell’uso della parola, oggi constatiamo la necessità che i collaboratori parlino di più fra loro.
Senza industria non c’è cura, ne sono un esempio la costruzione di infrastrutture in tanti comuni italiani a cui hanno contribuito e contribuiscono milioni di imprese e industrie del paese. Ci può dire che cosa, lungo la sua esperienza imprenditoriale, lei intende come cura? Il lavoro dell’impresa esige la cura.
Guardiamo soltanto a quello che oggi accade nelle città in cui viviamo e, per esempio, ai giovani. Coloro che non lavorano risentono di una mancanza nella loro vita, che consiste nel non partecipare alla società che produce.
La cura potrebbe essere questa, allora.
Quando gli uomini parlano e vivono insieme nell’ambito di lavoro, diventano migliori, più tolleranti e più aperti.
La cura può intervenire con l’esperienza della produzione nelle aziende di subfornitura? Esatto. I ragazzi devono sentirsi utili, devono sapere di contribuire alla costruzione del paese, perché è quello che fanno ciascun giorno le nostre imprese. Negli ultimi anni, invece, abbiamo impedito ai giovani di lavorare fin da giovani.
Ma studiare non vuol dire necessariamente non poter lavorare. Come si può avere la pretesa che un giovane scelga un lavoro quando non ha avuto occasione di provare che cos’è il lavoro? Una volta eravamo costretti a lavorare a 14 anni, adesso non si tratta più di essere costretti, ma d’incominciare l’esperienza di lavoro in modo che si accosti a quella scolastica. I ragazzi che studiano, nella gran parte dei casi, non trovano nello studio un appagamento delle proprie esigenze, ecco perché ne constatiamo l’abbrutimento nelle cronache attuali.
Ci siamo scordati delle scuole serali? Le scuole serali non rappresentavano altro che l’esigenza d’imparare cose nuove da parte di quei giovani che incominciavano a lavorare, perché si rendevano conto che per continuare a crescere avevano bisogno di studiare.
Ma oggi i ragazzi sentono ancora il bisogno di leggere e pensare? Qual è lo stimolo che li muove? Quale futuro ipotizza per i giovani nel settore? Qualcuno dice che il nostro mestiere finirà proprio per la mancanza dell’interesse dei giovani. Io non sono così pessimista, perché se mi guardo attorno, tutto quello che vedo è prodotto grazie all’immensa varietà di stampi.
Pertanto, se vogliamo continuare a vivere bene, bisognerà che si continuino a produrre sempre più stampi. Sarà così possibile produrre, per esempio, un bicchiere di plastica che abbia un costo accessibile a tutti.
È in atto una grande trasformazione che favorirà il riavvicinamento dei giovani al lavoro e, quindi, anche alla scuola. Questa integrazione sarà inevitabile e avremo uomini migliori e orgogliosi di costruire le loro nuove imprese.