LA STANDARDIZZAZIONE IMPEDISCE IL PIACERE DELLA BOTTEGA
Lei
spesso nelle sue interviste per il nostro giornale ha notato la prossimità fra
l’artista e l’imprenditore, perché entrambi nel loro itinerario perseguono l’anomalia,
anziché aderire a standard e protocolli più o meno imposti. Nella richiesta
incessante di adeguamento a parametri e modelli uguali per tutti, da parte
delle istituzioni locali, regionali, statali ed europee, che ne è dell’anomalia
nell’impresa? Il
pregiudizio ottocentesco che grava sull’impresa e sull’imprenditore considera
l’anomalia, anziché un pregio, un difetto da eliminare, forse perché potrebbe
sfuggire al controllo. È vero che non si può permettere che ognuno faccia ciò
che vuole, altrimenti la società diventa una giungla. Ma l’imprenditore, come l’artista,
non è chi fa ciò che vuole, bensì chi punta a produrre qualcosa di nuovo,
secondo un modo che non è mai uguale a quello di qualcun altro. Nella nostra
provincia, a Modena, quante sono le imprese nate semplicemente perché un
operaio ha deciso di mettersi in proprio per fare, in un altro modo, le stesse
cose che faceva nell’azienda in cui lavorava, magari perché non ne poteva più di
sentire il titolare ripetere: “Finché ci sono io, qui le cose si fanno così”.
Quindi, l’impresa è
in sé un’anomalia, è qualcosa che nasce perché c’è qualcuno che non accetta
l’omologazione.
Lasciare che
ciascuno, nei dispositivi dell’impresa, trovi il modo di fare le cose senza
omologarsi vuol dire favorire quell’anomalia che è l’invenzione stessa, quella
che ci sorprende, quella che non ci aspettiamo.
E, a volte, accade
che uno stesso collaboratore per anni abbia lavorato svolgendo il proprio
compito alla perfezione, ma poi ci sorprenda per un’idea geniale, sorta per
caso, non necessariamente in un momento in cui stava lavorando.
Purtroppo,
l’eccesso di burocrazia impone vincoli al fare e all’impresa che lasciano
pochissimi margini all’invenzione e spesso chi ha un’idea nuova da sviluppare,
all’interno di un’impresa esistente o da costituire, è costretto a farla
rientrare in standard normativi e schemi economici e finanziari prestabiliti, a
tagliare tutto ciò che è considerato spigoloso e a praticare modifiche al progetto
originario, per cui finisce per sentirsi come un pittore al quale si chiedesse
una bella immagine di Roma in un quadro di cm 40X35.
In TEC Eurolab
abbiamo diverse idee che stiamo cercando di sviluppare, ma che non riusciamo a
fare rientrare all’interno di un quadro normativo ben preciso. Per ciascuna di
queste idee potremmo coinvolgere quattro o cinque giovani, magari ancora
studenti o appena laureati, due pomeriggi la settimana, per ragionare su
qualcosa che non è ancora un progetto ma può divenirlo o addirittura può
costituire la base per avviare una nuova impresa. Va da sé che le ore di
collaborazione di questi giovani sarebbero regolarmente retribuite, secondo un
accordo fra le parti. Ebbene, questo non si può fare, potrebbe essere
considerato addirittura lavoro in nero, quindi l’imprenditore deve creare una
start-up o trovare una qualche forma d’inquadramento.
Così si perde la
ricchezza dello scambio che si produceva, per esempio, nella bottega
dell’artigiano, in cui si poteva entrare a qualsiasi ora e discutere di quello
che stava facendo. Fare le cose in modo preordinato toglie quel piacere della bottega
in cui il maestro discuteva anche con l’ultimo garzone, in una pratica in cui
il maestro tanto insegnava, ma qualcosa imparava anche lui. L’eccesso di
standardizzazione impedisce questo piacere.
A livello europeo,
poi, c’è una tale corsa verso la standardizzazione delle normative, anche di
quelle finalizzate a definire protocolli di carattere tecnico, che si sfiora il
paradosso: per esempio, nel caso dell’Eurolab (la Federazione europea delle
associazioni nazionali dei laboratori di test e analisi di ventisette paesi), stiamo
lavorando per armonizzare le normative di ventisette organismi di
accreditamento, ma, siccome ciascun organismo le interpreta a modo proprio, ci
stiamo chiedendo come armonizzare le interpretazioni delle norme. Dobbiamo
aspettarci che un giorno non molto lontano l’uomo sia sostituito dai robot? A
furia di standardizzare, può darsi che per ciascuna mansione costruiamo un software,
lo inseriamo in una specie di umanoide e abbiamo risolto tutti i problemi.
Forse, anche
all’interno delle aziende, a volte rischiamo di non favorire risposte anomale,
per esigenze di produzione, di rispetto dei tempi di produzione, degli standard
e delle normative, non lasciamo libertà di espressione o di sperimentazione.
Forse, le imprese
dovrebbero promuovere qualche attività in questa direzione: le grandi imprese lo
stanno già facendo, per esempio Google lascia ai propri collaboratori una percentuale
di orario di lavoro libero. Noi potremmo istituire momenti culturali all’interno
della nostra azienda, a volte specifici, a volte trasversali, che aiutino le persone
a scambiare idee e riflessioni. Se riuscissimo a favorire il modo di pensare
fuori dagli schemi, forse spunterebbe anche qualche elefante rosa che è seduto
insieme a noi, ma non ce ne accorgiamo.
Dalla
Silicon Valley vengono in Italia a reclutare giovani di talento che possano
lavorare perseguendo l’anomalia.
Hanno
capito che cosa vuol dire essere eredi del Rinascimento: i nostri imprenditori
resistono all’omologazione e ai tentativi di vincolarli agli standard sociali,
politici, economici e finanziari pensati a vantaggio di qualche corporazione.
L’omologazione è
fastidiosa, soprattutto quando omologate sono le persone che si mettono insieme
e quindi hanno tutte lo stesso pensiero, che poi non è il loro ma quello di qualcun
altro che le ha omologate.
La democrazia può
avere tanti pregi, ma ha anche il difetto di mirare al consenso, quindi di interessarsi
alla quantità numerica dei cittadini in quanto possibili elettori.
In
effetti, la quantità da cui procede la qualità è la quantità infinita, quella per
cui le cose che si fanno e che s’intraprendono non sono contabilizzabili, maggiori
o minori, perché l’infinito non è contabile… Siamo riusciti a mettere in discussione il concetto di quantità
numerica nell’industria, per cui da tanti anni ormai si mira alla qualità del prodotto
e del servizio, mentre nella vita sociale stiamo pagando a caro prezzo la
permanenza di tale concetto, per cui si bada alla maggioranza, indipendentemente
dal valore delle idee e dei progetti che la maggioranza propone.
Quando,
addirittura, per compensazione, la democrazia non arriva alla dittatura delle
minoranze, che diventa dittatura del politically correct e del pensiero unico… Negli anni sessanta, settanta e fino agli
inizi degli anni ottanta, la politica era improntata alla discussione, al
dibattito tra figure di grande spessore culturale. Mi chiedo quale dei nostri
politici oggi riuscirebbe a reggere il confronto con un La Malfa, uno
Spadolini, un Andreotti o un Berlinguer. Erano i tempi in cui si discuteva
anche nelle case del popolo, anche nelle parrocchie, e poi magari si concludeva
con una bella tavolata a suon di gnocco fritto e tigelle. Ricordo una sera
degli anni settanta, a Baggiovara (MO), un mangiapreti di nome Brancolini che si
mise a tirare la sfoglia insieme al prete della parrocchia, il quale, dopo avere
sopportato le continue bestemmie del primo, sbottò: “Brancolini, guardi che sta
impastando farina e madonne!”. Seguirono risate e scuse, come nelle migliori
famiglie.
È vero che una
simile scena, alla Peppone e don Camillo, poteva essere considerata frutto del
compromesso storico in atto, ma aveva qualcosa di anomalo, non escludeva che
due persone di idee opposte potessero parlare senza cercare di eliminarsi a
vicenda fisicamente.
L’anomalia
ammette la contraddizione, che procede dall’apertura. Il pensiero unico è
fondamentalista perché tenta di togliere la contraddizione e propone la morte, la
morte del pensiero, la morte della parola e dell’intrapresa. Il pensiero unico
è la morte.
Purtroppo, non si citano
mai i morti che ha prodotto il pensiero unico: quelli della seconda guerra mondiale
furono 54 milioni, un numero impressionante, ma quanti sono stati i morti in
Russia e nei regimi comunisti negli anni successivi? C’è chi parla di circa 100
milioni. Basti pensare che in Cambogia veniva ucciso chiunque portasse gli occhiali
perché destava il sospetto di essere intellettuale o per lo meno qualcuno che
leggeva, quindi pensava.
Oggi si dice che
siamo lontanissimi da queste cose. Non ne sono così sicuro, qualcosa del genere
c’è anche attorno a noi, se pensiamo alle religioni e ai fondamentalismi dilaganti.
Per non parlare dei Laogai, in cui tuttora in Cina
migliaia di dissidenti sono costretti ai lavori forzati, con una ciotola di
riso al giorno… Chi non
ammette l’anomalia, la contraddizione, è persona pericolosa e, se fa gruppo,
diventa un gruppo pericoloso. Quindi, ben venga l’impresa con la sua anomalia,
anziché tutti coloro che vorrebbero chiuderla in un recinto.