L’ARTE DELLA MISURA E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
brainworker, scienziata della parola, presidente dell’Istituto culturale “Centro Industria”

Sulla porta, la targhetta “direzione”. Nella stanza, sul tavolo, i libri, i documenti contabili, il computer, le penne e i fogli, ma anche i resoconti giornalieri dei collaboratori. Nulla è fisso sul tavolo, ciascun elemento è in viaggio. Mentre il telefono squilla, entra con impeto discreto un collaboratore a chiedere conferme, a suggerire proposte, a ricordare un appuntamento. E intanto occorre rispondere al telefono che squilla, appuntare un nome, un’ordinazione da comunicare a chi è nel magazzino, nella fabbrica, fra l’odore della carta e del grasso delle macchine della produzione. Non ci sono compartimenti stagni nell’impresa: la carta non manca mai dove lavorano le macchine, senza posa. Al telefono si odono lingue straniere che cercano l’incontro e lo scambio, con il sorriso e la gioia di incontrare il nuovo interlocutore. L’impresa incomincia con la sfida e prosegue per la scommessa di riuscita. Le sue basi sono nel racconto di quel che si fa: il racconto costituito dal sogno e dalla dimenticanza inaugura il fare.
L’Italia, il mare, i terremoti: nulla è fisso e le idee non intervengono quando le cose sono stabili. La città non sorge secondo l’ideale, è sempre in divenire, esige in modo incessante una nuova scrittura, sia con la riqualificazione sia con nuovi edifici, e in ciascun caso puntando alla bellezza. La città non finisce mai. È finita, invece, l’era dell’industria che deve essere relegata ai confini della città, perché presunta grigia e inquinante. La trasformazione in atto induce gli stessi imprenditori a cercare qualità e bellezza anche negli spazi in cui inventano e producono. Qui le idee intervengono quando non sono confinate, ghettizzate non solo nelle ideologie, ma anche in spazi chiusi. Corpo e scena costituiscono l’apertura, non fanno sistema. Ed ecco che gli infissi e le tende, il pavimento e i muri, i quadri e perfino le tazzine o i bicchierini del caffè, sempre pronti per l’ospite inatteso con cui imbastire l’affare, diventano elementi del contratto, contribuiscono al modo dell’apertura. Pretesti anche per il racconto, con il suo tessuto, la sua stoffa, la sua scrittura. E lo stile, con il suo rigore e la sua follia, è la condizione del racconto e del tempo dell’impresa. L’impresa italiana è nota nel pianeta per la sua capacità di produrre su misura: con la misura non c’è più standard o parametro. La misura non è la dose, né il metro, tanto meno di paragone. Grande impresa? Piccola impresa? L’impresa che si scrive trova le sue dimensioni nella parola ed esige l’idea assoluta. Piccolo è bello? La bellezza non preserva dal tempo, il tempo custodisce la bellezza. La bellezza procede dall’apertura e poggia sulla differenza, non sull’uniforme: negli anni ottanta, gli stilisti italiani hanno inventato la moda made in Italy, con cui il quotidiano non si priva più dell’eleganza, fino ad allora confinata agli abiti dell’alta moda. Ancora una volta interviene la lezione del rinascimento, che la cifrematica, la scienza della parola, restituisce al pianeta con il movimento intellettuale del “secondo rinascimento”: non c’è più separazione fra manualità e intellettualità, fra arte e impresa, fra scrittura e invenzione. Il taglio sartoriale, il cosiddetto “su misura”, diventa industriale: la misura non è più standard perché non segue i canoni dell’accettabilità, della possibilità, della credibilità, del senso comune e del consenso. La produzione in serie degli abiti non esclude l’eleganza del dettaglio, della particolarità. Gli imprenditori italiani eccellono nel pianeta perché costruiscono secondo l’occorrenza, secondo il modo del viaggio, il modo narrativo, il modo della scrittura dell’esperienza, il modo del tempo, il modo della misura e anche il modo nuovo. Non c’è modernità senza il modo. Con la globalizzazione interviene un nuovo statuto intellettuale: l’imprenditore del rinascimento industriale, in cui la bottega e l’impresa non si qualificano nel sistema dell’industria che si declina in modo ordinale.
Qualche mese fa, Angela Merkel ha decretato ad Hannover l’era della Società 5.0, insieme al premier giapponese Shinzo Abe. L’intelligenza artificiale sarebbe qualificata dalle sinapsi digitali, ovvero tutto è connesso, cioè visibile e automatico.
Basta un click sul computer, sul telefono intelligente, sulla macchina targata Industria 4.0 per catapultarsi in un altro mondo senza limiti. L’avvenire? Sarebbe garantito dalla nuova tecnologia che ogni volta è avanzata quel tanto che basta per superare il limite precedente, sempre secondo la logica dei numeri ordinali e ordinati, come dimostra, per esempio, la numerazione dei sistemi operativi.
L’idea non è ordinale, non è una lampadina che si accende all’improvviso cliccando sull’interruttore, l’idea ha come condizione l’impertinente, non l’interruttore 4.0, 5.0 e così via. L’idea interviene in modo non pertinente fino all’invenzione, senza ordinalità e cardinalità, con la fede nella riuscita, senza idea di bene e idea di male, ovvero senza la misura standard. Altra l’idea che opera alla riuscita lungo il racconto, raccontando e quindi facendo, fra lo sbaglio di conto e l’errore di calcolo. L’idea opera in modo che le cose giungano a conclusione e opera all’infinito, senza posa e senza visione. L’idea è ciò che nessuno sa di avere. L’artista e l’imprenditore non conoscono il risultato del loro progetto e del loro programma, ma procedono ciascun giorno attenendosi all’invenzione e al gioco, elevandone la posta e non risparmiando quel rischio con cui la scommessa incontra l'intelligenza. L’intelligenza, quella che interviene con il cervello non naturale, il cervello come dispositivo pragmatico, non come dispositivo meccanico, automatico, in assenza di parola. L’intelligenza artificiale non è il sistema delle macchine e delle tecniche: l’intelligenza è artificiale perché è arte del fare con cui si esercita ciascun giorno l’imprenditore.