IL FUTURO DELLA CITTÀ IN ITALIA
La crisi economica mondiale, tuttora in corso, ha forse avuto in
Italia come principale effetto l’arresto dell’attività edilizia e quindi
dell’espansione delle città. Non siamo, speriamo, all’inizio di un nuovo
Medioevo, come quello che, per vari secoli, portò alle città parzialmente
abbandonate (le città “retratte”) ma certo, attualmente, almeno in Italia, una
considerevole quantità di fabbricati, o di una loro parte, è rimasta priva di
qualsiasi utilizzazione.
Contestualmente con tale evento, in Europa ma soprattutto in
Italia, è stata decretata la necessità di interventi per il “risparmio del
suolo” arrestandone il consumo causato dall’attività edilizia. Tra le misure
adottate dallo Stato, forse non solo per tale fine, c’è quella che impone
contributi eccezionali a carico delle imprese che richiedano il permesso di
ampliamento di impianti industriali e commerciali in deroga alle vigenti
prescrizioni urbanistiche. Mentre talune Regioni hanno già con legge stabilito
il divieto generale di ampliamento degli insediamenti esistenti.
In definitiva, è stata decisa una totale inversione di
orientamento dal concetto di città diffusa nel verde a quello di città chiusa,
che potrà essere più ricettiva soltanto mediante la sua enunciata
“densificazione” ossia con la ristrutturazione, l’ampliamento, il frazionamento
o comunque il più moderno uso degli edifici esistenti.
Tale radicale previsione, certamente con il carattere sommario
di misura di salvaguardia, in assenza di una precisa dottrina che necessita di
una approfondita elaborazione, è fondata sulla coscienza di un passato di
effettivo cattivo uso e talora spreco del suolo da parte del potere pubblico,
specie in territori nei quali i terreni, per la loro qualità paesaggistica e
culturale, dovevano essere utilizzati e spesi con la necessaria parsimonia e
quindi con un'edilizia intensiva anche a vantaggio della città.
Quella che appare una misura urgente e quindi sommaria e temporanea,
in effetti una qualche giustificazione può averla: ciò che si presenta ai
nostri occhi è una realtà del tutto criticabile. Lo sviluppo urbano è stato regolato,
a partire dal 1967, dalla cosiddetta Legge Ponte, conformandosi alla dottrina
“moderna” internazionale, con l’abbandono del tipo di città latina,
caratterizzata dalla continuità delle vie, dalla presenza di piazze e di luoghi
centrali, con il caratteristico “effetto città”. In questo modo è venuta meno,
nelle nuove periferie, la città ad uso “anche” del pedone. Sono mancate la
conseguente promiscuità e l’evoluzione delle attività, la casualità e la
varietà degli incontri – assenti nel modello statunitense e comunque
anglosassone del “villaggio felice” – privilegiati invece dal concetto di stretta
comunità tra vicini, di rapporti precostituiti e stabili.
I miti ideologici responsabili dell’attuale situazione sono
principalmente l’ideologia antiurbana, il mito politico della lotta alla
rendita e il vincolo paesaggistico indiscriminato di parti importanti del
territorio nazionale.
La dottrina antiurbana, che risale agli inizi della civiltà, ha
costituito nel dopoguerra il modello prevalente nella cultura urbanistica
italiana, dovuto al predominio della letteratura e della tecnica statunitense,
oggi in qualche modo internazionale, per quanto riguarda l’uso del suolo.
Questo modello, inadatto all’Italia, ha avuto come risultato la costruzione
solo di anonime periferie dal 1967. Va quindi rivista l’individuazione del
modello di convivenza, cioè l’ideologia della città, che, basato fino a oggi
sulla teoria del “villaggio felice” ha portato all’attuale situazione, oggetto
dell’odierno radicale arresto di qualsiasi prospettiva di diversità di sviluppo
da parte del potere pubblico.
È quindi necessario, o meglio inevitabile, identificare il
dilemma ideologico e ripensare il tutto dalle radici, per non ripetere gli
errori nella sperata vicina ripartenza, ed effettuare un lavoro di ripulitura
ideologica, rinnegando anzitutto il sotterraneo ma dominante (nella cultura
ufficiale) sentimento antiurbano. Innanzitutto il lunghissimo e ininterrotto,
fino a oggi, pregiudizio nei confronti di chi vive nella città: già la Bibbia
ci insegna che Caino fondò le città, che Sodoma e Gomorra sono il modello di un
luogo albergo dei vizi e che la torre di Babele, priva di un solido legame di
comunità degli abitanti, è destinata a fallire. Così Tacito ci descrive quella
che era la forma degli insediamenti dei Germani, che sarà estesa al mondo
anglosassone (“I Germani non tollerano di avere un muro in comune con il
vicino”) e oggi al mondo intero: il villaggio.
Nella continuità di pensiero basta richiamare Lutero, che indica
la città come luogo del male, fino alle teorizzazioni statunitensi di fuga
nella solitudine della foresta, della “Broadacre city” dispersa nella campagna,
secondo il più puro modello germanico (ancora i Germani di Tacito, con i
villaggi isolati e possibilmente senza vista reciproca), per giungere alla
legge urbanistica italiana, n. 1150 del 1942, (ispirata, pare, alla legge
urbanistica della Sassonia) che, all’art. 1, afferma che scopo della legge è
quello di combattere l’urbanesimo e di favorire il disurbanamento. Ciò
costituisce un chiaro esempio della persistenza della dottrina antiurbana e
della pretesa superiorità morale della vita in campagna su quella in città, con
la conseguente riproduzione fedele del tradizionale villaggio costituito da
case unifamiliari.
In conclusione, la più moderna dottrina urbanistica riconferma
la superiorità del villaggio nei confronti della città, abitata da una,
evidentemente infelice, “folla solitaria” (così scrive David Riesman, un
sociologo statunitense).
Per questa via l’Italia si è modellata su una dottrina che, in
sinergia con altri principi, ha portato alla “città dispersa” che lo Stato,
autore della dispersione, oggi rinnega, affermando il principio durissimo e
radicalmente ambientalista, altrettanto criticabile, della fine indiscriminata
dell’espansione delle città. La vecchia dottrina, per preservare la purezza del
villaggio “germanico”, aveva decretato anzitutto la rigida separazione delle
zone residenziali dalla restante parte di città, con la prescrizione
obbligatoria di ampie riserve di aree a verde. Tali quote sono state,
nell'esaltazione del valore assoluto del verde, da talune Regioni raddoppiate o
comunque aumentate, mentre molti Comuni hanno fatto a gara per prevedere
ulteriori e ancora più ampi spazi di verde, in quantità anche inverosimile.
Il verde sia pubblico sia soprattutto privato, ha così portato,
per la sua diffusione anche minuta, alla rottura del continuo edificato,
allungando i percorsi a livelli insostenibili dai pedoni, rendendo
eccessivamente onerosi i trasporti pubblici ed aumentando in qualche modo
l’inquinamento urbano. Inoltre i nuovi edifici, circondati da aree a verde,
vengono forzatamente separati tra loro anche per la prescrizione di nuove
distanze reciproche.
Accanto al verde, mito della foresta originaria, è stato
introdotto in varie parti d’Italia il principio politico della lotta alla rendita,
sull’onda di teorizzazioni autoctone. Se infatti il valore di un terreno,
almeno fino a oggi, derivava dalla quantità della sua edificabilità (come è
noto, viene venduto, di norma, a metro quadrato costruibile), appariva evidente
che l’amministrazione comunale era portata da un lato a escludere le
possibilità edificatorie troppo alte, con conseguente ingiustificato arricchimento
del proprietario, e, dall’altro, a distribuire possibilità edificatorie un poco
a tutti.
Un terzo fattore di dispersione è stato quello del vincolo
paesaggistico di parti del territorio aventi determinate caratteristiche ma
identificate in modo generico, come le rive del mare, dei fiumi e dei laghi,
Tale vincolo, nato con caratteri d’urgenza per la necessità di un immediato intervento
per fermare la devastazione in atto di talune parti (in particolare, delle
coste), è tuttora permanente, impedendo l’inserimento di un fiume nel contesto
urbano. Mancherà quindi, per il futuro, la possibilità di edificare bellezze
straordinarie come quelle del passato, le belle città lungo il mare (a partire
da Venezia), ma anche i lungofiume di Firenze e Roma. Oggi restano possibili
solo interventi minori e quindi dispersi.
Il nuovo principio del risparmio del territorio, come riparo
agli sprechi passati ma soprattutto come cessazione di quelli futuri, viene
oggi proposto come una nuova radicale ideologia ambientalista, quella della
supremazia della natura sull’uomo, quindi potenzialmente dannosa come ogni
radicalismo.
Indubbiamente, di fronte alla necessità di future costruzioni,
la sola “densificazione” del tessuto esistente proposta dalla legge statale è
attuabile solo molto modestamente, specie nelle zone residenziali o promiscue, perché
il minuto frazionamento delle proprietà immobiliari abitative e anche
direzionali non consente interventi di demolizione e ricostruzione integrale di
tipo moderno. In presenza degli attuali profondi cambiamenti del commercio, dei
trasporti urbani, delle industrie, appare difficile una teorizzazione di un
modello tecnico diverso di città italiana. Ciò che invece è doveroso è il
recupero delle nostre città e del nostro modo di vivere, senza esaltare i miti
di altre culture, non dimenticando che la città è la fonte della cultura,
almeno nel mondo latino, e la sede delle libertà. Occorrerebbe che l’ideologia
lasciasse spazio al recupero della tradizione italiana, che appare più
flessibile e quindi più efficiente e, in conclusione, moderna.