IL TRENO DELLA VITA

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gallerista, Modena

Fin dagli anni sessanta, Emilio Mazzoli contribuisce con la sua galleria di Modena all’incontro con artisti di tutto il mondo: dal lancio del futurismo alla prima mostra di Basquiat in Italia nel 1981. Dalla sua galleria è partito il movimento della Transavanguardia, che ha valorizzato l’opera di Mimmo Paladino, Enzo Cucchi e di altri artisti oggi di fama internazionale in America e in Europa. Il manifesto della Transavanguardia è uscito a opera del critico Achille Bonito Oliva, principale promotore del movimento, insieme a Mazzoli, ed è stato pubblicato dalla casa editrice Spirali con il titolo Il sogno dell’arte.
Com’è nato questo movimento e come si è sviluppato?
All’epoca con la mia galleria lavoravo già con artisti di grande rilievo, quelli che oggi sono considerati fra i più importanti esponenti dell’arte povera e dell’arte concettuale. L’arte era arrivata a un punto talmente avanzato che non esisteva più la pittura. Così, con gli artisti della Transavanguardia e con Achille Bonito Oliva, abbiamo pensato di riprendere la pittura nella galleria. Fu un’intuizione importante, perché non se ne poteva più di vedere queste opere strane che provenivano da un mondo legato alla politica, al potere, al sistema, all’occupazione di territori, più che all’arte vera. “Siamo italiani – pensai –, abbiamo pittori che hanno insegnato a mezzo mondo, proviamo a fare della bella pittura”.
Allora, pubblicammo Il sogno dell’arte.
Il mondo culturale italiano veniva a Modena e scuoteva la testa: “Questi sono diventati matti, lasciano la strada vecchia per la nuova”. Però con questo libro era successo qualcosa di particolare perché mi arrivavano lettere dall’Armenia, dalla Russia, dal Cile, dagli Stati Uniti; erano tutti interessati a questa nuova idea dell’arte, a questo grande gioco che cercavamo di fare. E da lì è partita una storia che ci è scappata dalle mani ed è andata a finire in tutto il mondo. Solo che il sistema, naturalmente, ci era contro. Quando esiste qualcosa di buono, sorge sempre l’invidia, specialmente nell’avanguardia. Invidia che non viene dal popolo o dalle persone semplici, ma dall’ambiente di quella piccola cultura delle piccole città. Mi ricordo che ai tempi di Basquiat i problemi venivano da certi artisti locali: “Mazzoli espone i negri”, dicevano. Perché? Secondo me, questi artisti marcavano il territorio come i cani e avevano paura di perdere quel minimo di notorietà che gli permetteva un’esistenza legata agli interessi locali, alla piccola politica, alle convenienze, alle cene e al piccolo potere.
Ma gli artisti modenesi hanno dato un notevole apporto alla bellezza della città…
Questa città è nata da un duca che l’ha proposta e rimarrà nei secoli. Guardiamo invece il palazzo che c’è dietro questa palazzina Vigarani (Giardini Ducali): è un disastro, dove non c’è stata una visione, hanno fatto un disastro. E lo stesso si può dire del Tempio, una chiesa orribile. C’è, invece, un monumento ai Caduti nel parco che è bellissimo, ma di cui nessuno parla mai: è opera dello scultore modenese Ermenegildo Luppi ed è uno dei più bei monumenti di Modena, oltre a quello del Graziosi. Dall’altra parte, abbiamo cose che sono state messe senza scienza e senza coscienza da qualcuno che le faceva mettere.
Se sfogliamo le riviste modenesi del Novecento, degli anni che precedono il fascismo, troviamo quella cultura che è venuta a mancare dopo: non ci sono più stati personaggi come Angelo Fortunato Formiggini, Antonio Delfini, Enrico Stuffler, Mario Allegretti e Giuseppe Fogliani, vissuti nel periodo in cui c’era una borghesia di avvocati e di medici. L’arte dopo è stata decisa in un’altra maniera. E poi c’è stato anche un odio sociale tipico delle città di provincia dove la nobiltà è decaduta e impoverita e quelli che hanno fatto fortuna dopo sono stati valutati per il loro denaro, non per la testa che avevano. Non c’è stata una visione. Quindi, le banche compravano quadri parrucconi, robe di chiesa orripilanti. Basti pensare che una banca nata 150 anni fa non ha finanziato un artista come Morandi, che stava a Bologna, a pochi chilometri da qui.
Io ho amato la mia città da morire e sono rimasto qui. E la meraviglia è che sono ancora in piedi. Tutte le mattine mi sveglio con stupore, sono un calanco, ma tutte le mattine ho voglia di fare qualcosa perché il mondo è aperto ancora. Questa è una meraviglia: riuscire a durare quando tutto il mondo ti mangia. Per me l’arte era la musica, la poesia, l’architettura, era la pittura, era il disegno, adesso sono tutte cose che non c’entrano più niente. Per esempio, il design, pur essendo una disciplina importantissima, è sempre stata la stampella dell’arte: il designer era l’artista mancato, in genere. Oggi costa più un vaso di ceramica che un’opera d’arte. Quindi, è tutto un altro mondo, nell’arte è entrata la finanza, che è una disciplina importante, però tratta di finanza, non di cultura. Viviamo in un momento in cui tutto deve essere consumato al minuto, c’è un troppo pieno, ci sono migliaia di persone che fanno arte, tutto è diventato arte ed è diventato un grande luna park.
Tuttavia, credo che sia un momento molto interessante, perché il palazzo è stato abbattuto, quindi siamo sulle fondamenta e possiamo ricostruire e, probabilmente, si può ricostruire tutto con semplicità, partendo dai valori primari, sapendo anche riconoscere i valori. Se mi chiedono come so riconoscere gli artisti, rispondo che è una forma di carisma, di occhio che si ha: dico sempre che ci vedo pochissimo, ma ho lo sguardo che “fa le curve”; oppure è una forma di cultura che hai acquisito a furia di leggere, leggere, leggere, studiare, guardare, conoscere l’uomo, essere semplici. Questa è stata la mia vita e spero che vada avanti ancora un po’.
La gente oggi non va in galleria…
La galleria non è un buco che va da una parte all’altra, come in autostrada, la galleria è un posto dove si produce un imprenditore. Ma perché lo stato considera le gallerie tutte uguali? La galleria può essere una bottega. Io nel mio piccolo sono stato un Robin Hood, ho preso ai ricchi per dare ai poveri. Quelli che sono venuti in galleria per acquistare un quadro con un piccolo risparmio hanno fatto una fortuna, non ce n’è uno che abbia perso il denaro. La gente ha paura di entrare in galleria, ma sono le opere che sanno dove andare: io non vendo niente, se l’opera vuole andare da qualcuno ci va. Se chi la compra la rivende e poi l’opera sale di valore, peggio per lui, vuol dire che l’opera non voleva stare a casa sua.
In un’intervista uscita su “Artribune” nel 2012, lei afferma: “La mia è una galleria politica, perché crea cultura e si rapporta per forza di cose con le istituzioni della città”. Ci sono uno scambio e una collaborazione con le istituzioni oggi?
Non mi faccia parlare: la politica dovrebbe essere la disciplina più grande del mondo. Quando mi hanno messo a far parte di una fondazione, mi davano un gettone, ma contavo meno del due di coppe quando si va a briscola di bastoni. Il primo giorno che sono entrato il presidente mi ha detto: “Lei non è istituzionale”. Cosa significa, non pago le tasse? Lavoro per la strada? La politica è un’altra cosa, è una disciplina troppo importante, dovrebbe essere un dono, dovrebbe farla chi è capace di farla. Invece, è diventata un mestiere che si tramanda di padre in figlio. Questa politica non m’interessa, m’interessa l’umanità delle cose, capire le cose e il buonsenso, il rispetto reciproco: se io sbaglio e qualcuno mi fa capire che sbaglio, gli chiedo scusa e mi metto in ginocchio. Nella mia vita non ho mai seguito il discorso di chi dice: “Tu puoi” o “Tu non puoi”, a seconda della quantità di denaro che uno ha accumulato nella vita. Se quarant’anni fa fossi andato via da Modena, sarei centomila volte più ricco, ma sono contento di stare qui perché mi piace stare qui. La nostra tradizione ha insegnato mille cose alle persone.
Nella nostra città abbiamo avuto personaggi nella cultura che hanno dato tanto e hanno ricevuto in cambio molto poco. Pensate al povero Antonio Delfini, che era ricchissimo, ma non aveva capito che la società stava cambiando, teneva le campagne quando le campagne erano da vendere, viveva da ricco e lo hanno sfruttato tutti: le banche gli hanno mangiato il palazzo che aveva in Canalgrande e poi, alla fine, gli hanno intitolato la biblioteca che ha sede nella stessa strada.
Questa è la provincia, la nostra città, dove tutti hanno paura e stanno nel loro nido. Anche a entrare in galleria la gente ha paura di essere aggredita ed essere costretta a comprare un quadro. La galleria è come andare a teatro: tu entri per farti una cultura, non paghi niente, ricevi un servizio e guardi. Se hai l’occhio per vedere, vedi. Ho venduto quadri che un operaio della Fiat avrebbe potuto comprare a rate e oggi, a rivenderli, potrebbe comprarsi una villa. Oggi vengono in galleria personaggi incredibili del mondo della moda e, se vuoi diventare il loro manichino, lì è la finanza che detta legge. Ma io non voglio servire questi personaggi, ho il terrore. Io voglio la mia libertà: io fatturo tot all’anno, loro fatturano duemila miliardi all’anno, con un colpo di tosse ti spostano di trentamila chilometri. Tutto il mondo sembra che guardi a quel mondo lì e la poesia si perde.
Poi, dall’altra parte, tutte le insegnanti che scrivono una poesia credono di essere Amelia Rosselli. La gente dovrebbe, umilmente, secondo le proprie possibilità, cercare di acculturarsi. Gli intellettuali sono anche molto pesanti a volte, dipende da che intellettuali sono. Io da ragazzo frequentavo Giorgio La Pira, era un professore super universitario, però si sedeva in mezzo a noi, che eravamo seduti in circolo, e ci parlava con le parole del Vangelo, nella maniera più semplice del mondo. Io vorrei parlare con voi di cose complicate e difficili, come sono le cose dell’arte, come parlava La Pira, in una maniera semplicissima. E La Pira stringeva la mano a Ho Chi Minh. Oggi ci sarebbe qualcuno che si farebbe sparare pur di parlare con un uomo così potente.
Abbiamo accennato al valore, al valore dell’opera. Come si alimenta il valore di un’opera?
Il valore di un’opera, secondo me, dovrebbe sempre partire dal basso. Oggi è il contrario: arriva uno stramiliardario, vede un giovane artista e lo fa costare due milioni di euro. Questa è la finanza, ma è un’altra disciplina. Vedremo fra cinquant’anni. Tutti i giovani artisti e i giovani galleristi dovrebbero partire dal basso e fare un percorso, come nello sport: più medaglie vinci, più premi vinci, più crescono i prezzi. Dovunque arrivi – al Beaubourg, al Guggenheim, al Modern Art, all’Hermitage – più sali e più cresci. È un concetto mio, che spero un domani torni a essere il vero concetto dell’arte.
Cosa consiglierebbe a un artista per incominciare a entrare nel mercato?
Lavorare, lavorare, lavorare. Ricordo un libro di Adelphi, scritto da un anonimo russo, dove c’era questa citazione: “Memento orare semper”, ricordati di pregare sempre. L’anonimo si chiedeva che cosa fosse, ma è semplicissimo: viene da una lettera di san Paolo ai Tessalonicesi, in cui si dice che pregare sempre vuol dire pregare sempre, fino a che la bocca si rompe, la lingua s’informicola e si raggiunge l’atarassia. L’artista è questo, ma anche il gallerista: pregare, lavorare, credere in quello che fai, prendere pugni in faccia, se occorre, ma credere. E oggi, con i mezzi che ci sono, se hai un’intima convinzione e sei veramente bravo, non sei perso, qualcuno ti prenderà sempre, perché il treno nella vita passa per tutti, almeno una volta. Ma bisogna saperlo prendere.