LA CITTÀ. ARTE E INVENZIONE
La città non si erge, già fondata, sulla base di un’ideale
convivenza. Prima dell’instaurazione del rinascimento, dell’industria, della
finanza, non c’era la città. La città sorge nei pressi di strutture utili per
il lavoro, per la costituzione di dispositivi, vicino ai fiumi, nelle valli,
sulle colline. Al crocevia di acque, venti, strade. Basta un dispositivo e è
già la città. Il dispositivo, non il luogo, non l’urbanistica. Non c’è il luogo
del lavoro, dell’industria, del tempo. L’impresa, l’azienda, l’industria si
scrivono e utilizzano strumenti, aprono sedi, formano collaboratori, rendono
servizi ai clienti. Il registro della città è lo stesso registro del racconto,
della poesia, dell’ingegneria, della politica. L’arte e l’invenzione sono la
narrativa. Non basta fondare una società o aprire un ufficio, non basta
l’automaticismo del sistema burocratico. Chi azzarda a proporre qualcosa corre
il rischio che la sua impresa abbia come condizione l’eccellenza, divenga
proprietà, cifrema, qualità intellettuale, cifra. I cifremi non sono già dati.
Incalcolabili, inimmaginabili. Nuovi. Nessuno standard nei cifremi. Se la città
accoglie questo è la città senza luogo e senza origine, è la città dell’ospite.
È la città in viaggio.
La città è proprietà della struttura dell’Altro. L’Altro, di cui
non sappiamo niente, che non aspettiamo, che non conosciamo, che non
identifichiamo in qualcuno o in qualcosa. Nessuna città ridisegnata a misura d’uomo.
Un solo modo perché l’Altro intervenga: il fare. Tanti modi per escludere e per
trattare l’Altro: tutti quelli che contemplano l’immobilismo, il sistema, lo
standard. La geometria, l’algebra, il conto senza lo sbaglio, il racconto senza
il tempo. E la città non sfuggirebbe alla mappatura, al controllo, alla
lottizzazione.
La città e i suoi dispositivi. La bottega, la piazza, la casa.
Le opere d’arte nel museo. Le opere d’arte nella galleria.
L’opera d’arte importa per la valorizzazione dell’impresa.
Il museo dell’impresa è museo vivente, in trasformazione, che si
racconta, si narra e si scrive. Il museo vivente è sempre museo dell’impresa.
La città, il museo, la galleria, la bottega, la casa. Strutture
che conservano e espongono opere e libri d’arte, che promuovono, organizzano e vendono
prodotti, manufatti, servizi, eventi. Museo di opere permanenti e galleria di
opere itineranti.
La città, il museo e la casa. Nel nostro specifico, il museo
della Villa San Carlo Borromeo e la casa editrice Spirali.
E il contributo di ciascuno come statuto intellettuale:
l’assunzione di ciascun aspetto dell’impresa, senza la delega agli specialisti,
ai competenti, ai professionisti. In questo dispositivo ciascuno mette alla
prova i suoi talenti secondo l’occorrenza.
Infatti, nel contesto della nostra casa editrice, proponendomi
per recensire libri sulla rivista, mi sono trovata a correggere bozze, leggere
manoscritti, intervenire come editor, impaginare, lavorare con i tipografi,
decidere sulla distribuzione, promuovere in libreria, preparare un evento,
parlare con i giornalisti, addirittura presentare il libro con e senza l’autore
in varie città, scrivere di quel libro, testimoniare di quel libro nel mio
libro e essere qui con voi mentre un altro libro si sta scrivendo. Dalla
proposta dell’autore alla casa editrice alla restituzione della globalità di
quest’esperienza oggi: questa la narrazione. Lavoro intellettuale, ma anche
lavoro della mano.
I libri viaggiano nel pianeta, coinvolgono altri nella lettura,
proseguono a interrogare, senza attendere risposta, gli abitanti della città e
si lasciano ancora raccontare senza dovere prevederne gli effetti. E l’evento
intorno a quel libro non è mai lo stesso. Neanche il libro è mai lo stesso.
Oggi, quel libro, così come è stampato, così come è uscito dalla
tipografia per essere distribuito e venduto, così come è entrato nella
scrittura di molti, se tornasse nella casa editrice per essere ristampato,
sarebbe un altro libro, un’altra cosa.
Nessuna competenza sulla base del già fatto. Nessun ricordo di
quest’autore, nessuna ristampa può replicare lo stesso libro. Neanche quella
anastatica. È questa la via dell’edizione. E dell’oralità.
Come gli artisti del nostro Museo e della nostra galleria
raccontano la città.
Come le opere escludono il fatto, la somiglianza, la
verosimiglianza, il verosimile: questo rende interessanti i dipinti, i disegni,
le sculture, i film, le fotografie, i libri e i quaderni d’arte. Non
documentano il fatto. Non mostrano la storia. Non sono obiettive. Non
rappresentano la natura. Perciò nessuna visione, che le renderebbe pesanti e
legnose. La lettura di ciascuna opera rilascia l’equivoco, la menzogna, il
malinteso e, nel conto e nel racconto, nella narrazione, partecipa al valore.
Questa la prova.
La prova è narrativa: cioè ciascun elemento entra nella parola,
si espone, si racconta, si scrive, si legge. E con il dibattito anche l’ascolto.
Ecco allora la città di Roberto Panichi: l’Etruria, la Grecia,
l’antico e il moderno. Nessuna scrittura o pittura del passato, e nessun
sacrificio nella e della scrittura, nessun rimpianto e nessuna credenza
nell’avvenire radioso. Abbiamo intitolato il libro d’arte di Panichi Ciò
che resta dell’avvenire. Cinquemila anni di scrittura (Spirali,
2002). La sua è una traversata, assolutamente filologica, della pittura,
dell’architettura e della scultura che parte dall’Etruria, passa per la Grecia
e per Roma e approda alla Firenze del rinascimento. Studioso di arte e di
lettere antiche, scrive sulle sue opere parole greche, latine e di formazione
latina, senza cancellare l’etrusco, quella lingua immemoriale che rende la
pittura non significabile e il racconto mai finito. Così la città di Panichi.
La caratteristica della città è che le sue fondazioni non
poggiano sulle rovine.
Sulle necropoli. Sul tempo dato per finito o per infinito. Le
citazioni di Panichi chiamano in causa gli antichi e i moderni ma senza
situarli nell’epoca, né nella loro né nella nostra. Eraclito, come Dante, come
Leonardo scrivono dei millenni a venire. Per ciò che resta dell’avvenire.
Il libro di Panichi, la traversata dell’intero pianeta, in una
sola opera o nell’intero catalogo. Nell’edizione, anche le partiture e la
scrittura della musica, la scrittura della danza, e il coro. La città di
Panichi si fa di industria e di gioco, di arte e d’invenzione: è la città
planetaria di Olimpika MM, un paesaggio nuovo,
nessun canone, nessun antropomorfismo riconoscibile, nessun punto fermo cui
ancorarsi o riferirsi. Il gioco, il saluto, il convivium, l’incontro.
Nella città. Qui ci sono le invenzioni dell’avvenire e cinquemila anni di
scrittura.
Enzo Nasso non ha mai vestito nessuna uniforme, neanche quella
di artista. I suoi materiali, sopra tutto nelle sculture, ma che ritroviamo
anche su qualche tela, sono vecchi ferri, legni, plastiche varie, smalti di sua
invenzione e manifesti strappati, idea che Mimmo Rotella, suo amico, complice il
caso e lo strappo, porterà nel pianeta. I collage di Nasso sono ritratti di città,
di eventi nella città, talvolta di risonanza globale (I
Beatles).
La città e i suoi dispositivi: complessi, spigolosi, taglienti.
Ora il giardino ora il cielo. Ora la pace ora la guerra. Ora la folla nella
piazza intorno agli obelischi di Roma, ora la gente colorata della Times
Square. Ora le vie intasate ora le macchine volanti. Ora il viaggio verso altre
città.
Sandro Trotti, da Monte Urano a Roma. E oltre. Il paesaggio
della città senza nessun punto di vista, Roma senza l’impero. Roma senza la
contabilità dell’eterno. Roma città dell’avvenire, dove anche il cielo
partecipa alla superficie non piana. Roma irrispettosa, Roma inconciliabile,
Roma città che accoglie, Roma città che ascolta. Il ritratto della città senza la
città ideale. Questa — non la prima, non la seconda, non la terza Roma — è la
città nell’opera di Trotti. Quello che lo porterà verso il paesaggio d’oriente
e d’occidente. Dal Mediterraneo, mare di mezzo, verso oriente e verso occidente.
Trotti porta le donne e la sessualità dalla città in mezzo al Mediterraneo a
Pechino, a Tokio, a New York. La città di Sandro Trotti è la città in cui
quella che potrebbe essere una maschera, il colore della pelle, l’uomo o la
donna, il migrante, il povero o il ricco, il diverso, lo straniero, non si
trasforma né in uniforme né in origine, ma sottolinea il teatro, l’esibizione,
la risorsa, l’uno non unico e non doppio, l’immagine che nella sembianza
rilascia l’alterità non la significazione. Per Alfonso Frasnedi, nessun
concetto della città da riportare nell’opera. Nessuna installazione per
concettualizzare l’opera.
La città non si fonda su concetti. Se lo facesse, le sue case, i
suoi negozi, le sue strade risponderebbero al conto della statistica lasciando
il quartiere, quello che una volta si chiamava il villaggio, fuori dalla città.
E sarebbe una rappresentazione facile nella pittura: a un colore corrisponde un
concetto, a un contesto corrisponde un concetto: rigorosamente chiuso nella sua
geometria. E per vanificare questa geometrizzazione non basta l’informale. La città
di Frasnedi è la città moderna. Basta leggere i titoli che accompagnano
ciascuna opera: dalla traccia all’orizzonte, dal colore al paesaggio, dal
giardino alla casa. Dalla tavola alla stanza. Dalla tela alla scrittura. L’astrazione
non c’entra con il non figurativo che dà adito a ogni interpretazione. La
pittura non è astratta, l’astrazione è un processo pragmatico che con ha nulla
a che vedere con il non figurativo. Anche la figura è esposta a un processo di
astrazione nella pittura. Anche la città, la città in trasformazione, la città
in movimento. Il ritmo e il tempo della città.