LA MODERNITÀ DELL’ARTE E DELL’IMPRESA
In questi giorni cade l’anniversario, trascurato dai media, di
un evento essenziale per intendere l’importanza dell’arte per la civiltà e per
l’impresa. Sono trascorsi due anni dall’agosto 2015, quando in Siria, a
Palmira, riconosciuta dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, l’Isis
decapitò, dopo una settimana di torture, il capo della direzione generale delle
antichità e dei musei, lo studioso d’arte Khaled al-Asaad, che si era rifiutato
di confessare dove aveva nascosto centinaia di statue per sottrarle alla furia
distruttrice delle milizie dello stato islamico. Dopo i soliti messaggi di
rammarico delle autorità planetarie, a due anni da quella barbarie, il gesto
intellettuale di al-Asaad è stato dimenticato e l’indifferenza in materia di
arte, di invenzione e di umanità è tornata a regnare sovrana.
Eppure, dal 2001, anno in cui i talebani fecero esplodere i
grandi Buddha di Bamiyan in Afghanistan, è in corso la più efferata guerra alle
opere d’arte e di cultura della storia. Tutto ciò che è preislamico, avvolto
nella jahiliyya, ovvero nell’ignoranza della verità svelata da
Maometto, oppure tutto ciò che è accusato di idolatria e di allontanare dalla shari’a,
dalla strada da seguire, deve essere distrutto: non sono proclami di cellule
terroristiche, sono insegnamenti e precetti impartiti in molte moschee e
madrasse, cioè nelle scuole, e che sono stati attuati dai veri osservanti
islamici, combattenti e terroristi. Nel vicino Oriente sono stati distrutti o
colpiti le meraviglie delle città irachene a Ninive e Mosul, i siti archeologici
siriani di Aleppo e Palmira, il museo di arte islamica del Cairo in Egitto, i
musei del Bardo a Tunisi, in Tunisia, la cattedrale armena di Amida in Turchia.
E non a caso nel Bangladesh è stato attaccato un ristorante ritrovo di
imprenditori italiani, mentre in Europa prima è stato ucciso un regista a
Amsterdam, poi sono stati colpiti un teatro, un supermercato ebraico e la
redazione di un giornale a Parigi, e proprio in questi giorni il terrorismo islamico
ha funestato le Ramblas, il cuore turistico e commerciale di Barcellona: quel
che è inaccettabile per l’islamismo, e per i suoi complici occidentali, è la
modernità, i modi dell’arte e della cultura, del commercio, dell’impresa, del
turismo. Questi modi non provengono dall’illuminismo o dal romanticismo, ma dal
rinascimento e testimoniano del secondo rinascimento della parola e della sua industria
nel pianeta.
Come nota nel suo intervento Fabiola Giancotti, la città è
costituita dall’arte e dalla cultura che sono imprescindibili per l’impresa
dell’avvenire. Questione strutturale, non di mecenatismo o di funzione sociale dell’imprenditore:
l’arte come gioco e articolazione e la cultura come formazione e invenzione
impediscono che la tecnica si risolva in tecnocrazia e la macchina in
macchinario, dunque che l’impresa, senza arte e invenzione, riproduca se
stessa, giri in tondo e a vuoto, divenga circolare e possa finire. L’arte, il
cammino della memoria come esperienza in atto, e la cultura, il percorso della
memoria come esperienza in atto: senza questi due aspetti della memoria, dunque
della parola, l’impresa si priverebbe dell’avvenire, sarebbe in balia del
ricordo, cioè di una rappresentazione del presente secondo la dicotomia bene/male.
Come avviene: all’entusiasmo per “le macchine spirituali” di Ray Kurzweil, chef
engineering di Google, fa da controcanto l’appello contro “le macchine che
uccidono” di Elon Musk, presidente della Tesla Motors. Queste idee
dell’avvenire sorgono per negarlo, riducendolo a progresso benefico o malefico.
L’avvenire dell’impresa non è riducibile a queste rappresentazioni – frutto di ricordi,
d’idealità tecnologiche positive o negative – proprio per l’apporto strutturale
dell’arte. Come indica la pittura, da Piero della Francesca a Piet Mondrian, da
Alfonso Frasnedi a Roberto Panichi, l’arte non è rappresentazione, fa obiezione
alla teoria della rappresentazione che investe l’occidente fin da Platone.
Questione di punto di astrazione nella pittura, il suo colore non si afferra,
non si localizza, non si personifica nel divino e nel diabolico. Si può
immaginare l’arte dell’avvenire? L’arte progredisce, nel bene o nel male?
L’arte non consente l’immaginazione dell’avvenire, né la credenza nel
progresso. Per questo, se la tecnica è contrapposta all’arte, se l’arte è
espunta dalla tecnica, la demonizzazione della tecnica che ha attraversato il
Novecento rischia di divenire, nel terzo millennio, una divinizzazione: se
viene tolta, idealmente, l’arte, debordamento nella parola, cammino del
contrappunto che non consente visioni del mondo, la tecnica è in balia di ogni
rappresentazione e idealità, fino a diventare divina, perché l’uomo divenga
dio. Dall’artefice al demiurgo fino al daímon. E
questa divinizzazione, la mistica dell’ipertecnologia a sostegno dell’iperumanesimo,
partecipa ai vari fondamentalismi che da sempre detengono il monopolio del
divino e del diabolico: l’arte è colpita dal fondamentalismo (che invece si
avvale della tecnologia) perché resiste alla divinizzazione delle cose e degli
umani. Nessun avvenire per l’impresa quando essa trova il suo progetto e il suo
programma soltanto nelle ideologie sulla tecnica e sulla macchina, manifesti
del nulla contrabbandati come rivoluzioni industriali, come le direttive per
l’Industria 4.0 o per l’internet delle cose, o come gli appelli alle buone
pratiche e alla funzione sociale delle imprese. I programmi di divinizzazione e
umanizzazione dell’impresa sono programmi per la sua nullificazione.
L’impresa dell’avvenire non poggia sull’idealità o sulle
rappresentazioni, ma sulla parola, sul suo atto, sulla sua particolarità.
L’arte da cui l’impresa non può prescindere sta nel cammino con le sue risorse,
le sue impasse, le sue avventure, e il suo percorso avviene di errore in errore
fino all’invenzione. L’impresa dell’avvenire è pragmatica, narrativa, secondo
l’occorrenza, non è l’impresa divinizzata, purificata, ideale, dove ognuno
vuole il bene, e la tecnica e la macchina servirebbero a meglio conformarsi
all’idea di bene. Questa è la correttezza, base di ogni fondamentalismo: il
conformarsi all’idea di bene come volontà dell’Altro, come desiderio dell’Altro.
Il politicamente corretto si attiene alla presunta volontà dell’Altro come volontà
generale, è devastante per la politica dell’impresa dell’avvenire perché nega l’occorrenza
su cui essa poggia: secondo il politicamente corretto ognuno deve essere
corretto secondo il proprio desiderio, secondo la propria volontà (questa
l’autonomia), ma in quanto il proprio desiderio e la propria volontà devono
essere conformati al desiderio e alla volontà dell’Altro. Il politicamente
corretto è l’impresa sociale, l’impresa come comunità sociale e conforme al
sociale, ovvero alla propria volontà come volontà generale, alle proprie idee
come idee di bene. Alla volontà del nulla, all’idea del nulla.
Altra cosa è l’idea operativa, costruttiva, pragmatica, che è
l’idea non propria, l’idea che ciascuno ignora. Si attiene all’idea che ignora,
base dell’arte e dell’invenzione, chi non ha tempo per pensare a sé o per
pensare all’Altro, per pensare a cosa fare o a cosa non fare, per pensare a
cosa è meglio o a cosa è peggio, sbarrando l’avvenire dell’impresa. L’impresa dell’avvenire,
dunque, si scrive e si qualifica per lo spirito costruttivo, perché non è
guidata dalle proprie idee, e non poggia sul fantasma o sulla rappresentazione:
l’idea propria è sempre un’idea di origine, di fine, di morte. L’impresa
dell’avvenire non poggia sulle proprie idee, ma sull’industria ovvero, secondo
l’etimo, sulla struttura della parola, sulla struttura originaria. L’impresa
trova nella struttura materiale della parola la sua industria. Struttura
materiale, non formale né sostanziale, cioè non spirituale perché struttura
della parola che, diversamente dalla struttura del dialogo, non ha bisogno
della correttezza della domanda e della risposta. Lo spirito costruttivo non è
spirituale perché, secondo l’etimo, si attiene alla struttura della parola, non
alle idealità o alle rappresentazioni, al mistero o al pettegolezzo.
Nulla è dato: questo il teorema della struttura della parola.
Solo se partecipano alla struttura della parola, alla sua arte, alla sua
invenzione, alla sua industria, i big data offrono un apporto all’impresa
dell’avvenire. Se restano supporti del dialogo, a facilitare con algoritmi
algebrici e geometrici la correttezza della risposta e a creare la corretta
domanda, restano nell’arcaismo del discorso occidentale, da Platone a
Heidegger, come discorso dell’inerzia della materia, della sua fine, della sua
morte fino al trionfo dell’idealità, dunque della spiritualità.
Occorre che l’impresa si attenga all’industria come struttura
della parola, in particolare come struttura sintattica, frastica e pragmatica.
Struttura della ricerca e del fare, come emerge dagli interventi degli
imprenditori in questo numero. Facendo, l’impresa diviene proprietà
dell’industria: l’impresa dell’avvenire è l’impresa nel gerundio. Non è un caso
che gli ideologi che, fin dagli anni cinquanta, volevano affossare l’industria,
considerandola il luogo dello sfruttamento o dell’accumulo del capitale, ora
inneggino, come il filosofo André Gorz, all’immateriale e auspichino
l’industria dell’immateriale, ovvero l’Industria 4.0, l’industria dei big data,
l’industria dell’internet delle cose. L’industria immateriale sarebbe
l’industria basata sulla parola come pratica discorsiva, dove lo storytelling
prende il posto del manufatto, dove la mano è superata dalla mente, dove la
proprietà intellettuale è abolita e l’informatica velocizza e incrementa
l’arcaismo e le nuove ideologie. L’industria immateriale è l’industria
spirituale, mistica, mentale, è l’annullamento dell’industria. Resta nella
stessa logica purificatrice contro l’arte e contro l’impresa attuata da ogni
fondamentalismo, in particolare quello islamico.
Ma con il gerundio, cioè dicendo, facendo, scrivendo, la parola
non è discorsiva, dunque non è immateriale: la materia è una sua dimensione,
non disgiunta dalla dimensione di sembianza e dalla dimensione di linguaggio.
Dimensione intellettuale, non sostanziale né concreta, la
materia. L’industria è materiale, i dati sono materiali, la rete è materiale
non perché siano la nuova sostanza, ma perché esistono nella parola, nella
materia della parola che nessuno può manipolare perché nessuno può
padroneggiare. Perciò, niente chiusura, niente unità, niente totalità. Questa
materia non esige la padronanza, ma l’ascolto, perché è intellettuale, non
spirituale. A dispetto dello spiritualismo e dell’iconoclastia, distruttivi per
eccellenza, la materia non si rappresenta, non si presentifica, non è presente.
Per questo è intellettuale, ed è la base dell’avvenire. L’impresa dell’avvenire
è l’impresa della modernità, che si attiene alla procedura secondo la materia,
procedura che non ha più bisogno della distruzione creativa. Materia della
ricerca, materia del fare. La struttura materiale trova i suoi modi e le sue
misure, ovvero la sua modernità, con i dispositivi di parola: dispositivi
organizzativi, commerciali, promozionali, finanziari, direttivi, che esigono
l’ascolto, dunque comportano il brainworking per giungere alla riuscita. L’idea
costruttiva opera per la riuscita, per la scrittura dell’impresa, per il
profitto dell’esperienza. L’avvenire dell’impresa non è finanziare l’arte o il
territorio, è valorizzare, portandola a scrittura, la propria narrazione,
intessuta della propria esperienza, del proprio itinerario, delle proprie arti
e delle proprie invenzioni, dei propri manufatti e dei propri brevetti.
Proprietà intellettuale, proprietà d’ingegno: questa è la ricchezza
dell’impresa dell’avvenire, ricca in materia di arte, in materia di cultura, in
materia d’impresa. Il brainworking prova che la materia dell’impresa è materia
intellettuale.