LA DHIMMITUDINE ITALIANA, LA LINGUA E LA BATTAGLIA DI CIVILTÀ

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brainworker, scienziata della parola, presidente dell’Istituto culturale “Centro Industria”

“Gli antichi sovrani si comportavano nei confronti dei sudditi esattamente come il potere coloniale. Dal momento in cui conquista un paese straniero, il colonizzatore incomincia a svalutare la lingua locale affinché gli indigeni svalutino se stessi e si astengano dal pensare a una libertà che non meritano e che non si addice loro”.
In questo brano, tratto dal suo libro Perché il mondo arabo non è libero. Politica della scrittura e terrorismo religioso (Spirali), lo psicanalista franco-egiziano Moustapha Safouan notava, già nel 2008, come il primo modo per negare la libertà è togliere valore alla lingua o imporre parole che negano la verità effettuale delle cose. In Italia accade che dal gennaio 2016 l’Ordine dei Giornalisti censuri l’utilizzo del termine “clandestino” per gli immigrati irregolari, nel Testo Unico dei Doveri del Giornalista, pena l’avvio del procedimento disciplinare. All’inizio di quest’anno è invece il Tribunale di Milano a emettere una sentenza di condanna nei confronti del partito Lega Nord, per avere utilizzato il termine “clandestino” in alcuni manifesti (“Renzi e Alfano complici dell’invasione. Saronno non vuole clandestini”, ndr), termine che il Tribunale indica avere un significato denigratorio.
La comunità mediatico-giudiziaria talvolta sembra esercitarsi nella mortificazione dello status di cittadino esorcizzando la parola libera. È noto come oggi basti pronunciare soltanto alcuni termini perché scatti l’accusa di reato: basta aggiungere al termine il suffisso “fobia” e scatta la condanna, sociale o giudiziaria.
L’epoca presenta il trionfo delle contrapposizioni fra il debole e il forte, i buoni e i cattivi. Epoca moralista e naturalista, in assenza d’intellettualità, in cui spesso le istanze di chi abita e produce nella città, con la sua industria, le sue botteghe e le sue arti liberali sono sbeffeggiate, se non negate.
Nella società romana, lo status di cittadino si fondava sulla sicurezza del diritto. Questa sicurezza trovava espressione anche in alcuni principi quale, per esempio, il diritto di proprietà. L’ordinamento romano attribuiva rilevanza alle libertà dell’individuo, ivi compresa la libertà di movimento e la libertà economica, più di quanto non avvenisse nel diritto greco-ellenistico. I Romani avevano inteso che la sicurezza dello stato dipendeva dalla sicurezza dei diritti acquisiti dall’individuo. Per questo in Europa, più che altrove, la famiglia e la casa sono sempre state considerate un valore essenziale.
Ma oggi il diffondersi sempre più di “quartieri fortino”, difesi da mura e con alloggi videosorvegliati, è indice dell’esigenza di maggiore sicurezza nelle città e di un venir meno dei dispositivi di solidarietà che sono alla base dello status di cittadino. E anche i numerosi casi di “violazione del diritto alla legittima difesa” testimoniano di come i diritti di proprietà e alla riservatezza, della libertà e dell’incolumità personali sembrano essersi trasformati, tout court, in reati.
Questo avviene mentre in occidente avanzano schiere di migranti, in prevalenza di fede islamica, che non ambiscono ad acquisire cittadinanza né a essere rimpatriati: sono i nuovi non-cittadini. La maggioranza di questi migranti rifiuta l’integrazione e ingrossa le fila delle rivendicazioni e delle invidie, basi del fondamentalismo, come dimostrano ampiamente le cronache delle città europee.
La questione è culturale, prima che economica e politica.
Nel 2007 viene pubblicato in Italia il libro Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita (Lindau) della studiosa dello status delle comunità etnicoreligiose nei paesi islamici Bat Ye’or (cfr. il suo intervento nella “Città del secondo rinascimento” n. 66/2015), che preconizza l’islamizzazione dell’Europa con dieci anni di anticipo rispetto a quello che sta avvenendo.
“Ho dato il nome di dhimmitudine – scrive Bat Ye’or – a questa condizione di sottomissione dei non musulmani all’interno dei loro paesi divenuti musulmani. La dhimmitudine è caratterizzata da una cultura della resa e della sottomissione passiva imposta dai suoi leader, che aderiscono alla causa della comunità islamica per interessi finanziari e ambizioni personali. La dhimmitudine […] comporta tributi da pagare e discriminazioni obbligatorie da subire.
La svolta per l’Europa – prosegue l’autrice – è avvenuta nell’ottobre del 1973: il boicottaggio del petrolio l’ha condotta a tutelare i propri interessi […] ha favorito un processo di giustificazione e di legittimazione della jihad, vale a dire dell’ideologia che ordina e pianifica la distruzione della società giudaico cristiana e la sua islamizzazione. […] Dal 1973 la Comunità Europea ha negoziato degli accordi, ignorati dal grande pubblico, che miravano a favorire l’arabizzazione e l’islamizzazione dell’Europa per mezzo dell’immigrazione, con la diffusione della cultura islamica, con il rigetto delle proprie radici giudaico cristiane e con l’adozione del multiculturalismo che doveva garantire la pace nel Mediterraneo.
L’Europa diventa così il continente della tregua, in cui l’islam deve svilupparsi. Questa evoluzione, contraria alle libertà democratiche fondamentali, ha sviluppato in Europa i processi della dhimmitudine, caratterizzati da paura, insicurezza e perdita della libertà”, conclude Bat Ye’or.
Quanti ideologi, giornalisti, filosofi, religiosi e magistrati oggi vivono nella dhimmitudine, sono complici dell’islamismo moltiplicando i pregiudizi sulla civiltà occidentale, tanto da annunciare la fine dell’occidente? L’occidente deve scontare le sue colpe e purificarsi (ecco da dove viene il trionfo di alcune filosofie orientali) e in nome di questo purismo deve convertirsi all’ecologismo e al naturalismo, contro la città e l’industria, contro il rinascimento delle arti e delle invenzioni.
L’ideologia contro la città e la produzione trova un terreno comune con l’islamismo nella misura in cui combatte i modelli occidentali. È una battaglia contro la produzione e il profitto, contro l’impresa e le tecnologie, contro il mercato. È una battaglia contro le idee nuove, che contrappone all’ingegno di ciascuno la comunità fondata sull’ideale comunanza delle risorse. Non è un caso che spesso coloro che inneggiano all’immigrazione siano gli stessi che denunciano il depauperamento delle risorse del pianeta, di cui ognuno sarebbe responsabile perché infligge ogni giorno un colpo mortale alla “madre terra”. Madre naturale ovvero sempre mater dolorosa.
Sembrano questioni lontane e invece hanno radici comuni. Insiste un fantasma di morte come fantasma di origine e di fine del tempo dell’Europa, secondo il mito del buon selvaggio di Jean Jacques Rousseau. Secondo questa ideologia, la vita vale quando è all’origine della civiltà, finché l’uomo è selvaggio, giovane, incontaminato. Il fantasma di morte, sempre naturalistico, comporta la credenza che la civiltà occidentale stia invecchiando e sia giunta alla fine del suo tempo. Occorrono, quindi, nuove risorse, arrivano i giovani africani che sostituiranno i popoli dell’ormai vetusta Europa. Prendere a pretesto la crisi demografica europea serve al fantasma paranoico della rigenerazione: l’umanità sta finendo e potrà rigenerarsi, come nel mito della fenice, grazie all’avvento dei nuovi popoli che faranno risorgere l’Europa dalle proprie ceneri. Dalla rinascita alla rigenerazione.
Siamo in pieno infantilismo, interviene cioè una sorta di nostalgia di un’epoca in cui l’Europa, come l’uomo, sarebbero stati selvaggi e felici. Questo fantasma ha una logica circolare in cui il punto di inizio, l’origine naturale, si incontra con quello di arrivo, e quindi di morte e di fine del tempo. Questo fantasma impone di accettare l’immigrazione come l’inizio di una nuova civiltà innanzi al declino della civiltà occidentale.
Alcuni dicono che l’occidente è tramontato e dio è morto. Ma intanto nuovi popoli approdano in Europa in nome di un dio che esige la sottomissione dell’occidente. Islam si traduce con sottomissione.
Ma l’artista, lo scrittore, il poeta, l’imprenditore che, con modalità differenti, sono impegnati nella produzione non sottostanno al fantasma di morte, non sono invecchiati abbastanza da smettere di sognare, di scommettere, di inventare, di industriarsi. Non sono complici di questo attacco all’occidente che è l’attacco all’invenzione e alla produzione.
La cultura occidentale cui mi riferisco non poggia sull’illuminismo, che con la ghigliottina ha anticipato i tagliagole dell’Isis, ma poggia sul rinascimento delle arti e delle invenzioni, che incomincia in Italia con la nascita dei comuni e dei cantieri cittadini, sin da quando Giotto introduce la struttura del paesaggio e della casa nei suoi affreschi; quando Cristoforo Colombo inventa l’America e Marco Polo annuncia l’Oriente; Niccolò Machiavelli inventa la politica e trova un altro ritmo nella giornata perché sia produttiva, mentre Ludovico Ariosto introduce le donne nel romanzo e Leonardo da Vinci descrive la natura come l’”artifiziosa natura”.
Natura artificiale quella dell’invenzione. Altrove scrive Machiavelli: l’industria vale più che la natura. Sottolineo questo aspetto in una terra, il Salento, in cui il pane, l’olio e il vino spesso sono intesi come naturalistici, ma noi li gustiamo in quanto prodotti dell’artificio dell’uomo, prodotti della sua industria. L’artificio fioriva nell’esperienza originaria delle botteghe rinascimentali italiane che inventavano la civiltà, senza più la separazione fra le arti liberali e quelle tecniche, fra il cervello e la mano. Come invece non intende l’illuminismo francese e come dimostra di non intendere l’economista e filosofo Serge Latouche, tanto di moda in quest’epoca, con la sua proposta della “decrescita felice”.
È dunque l’Italia, con l’80 per cento del patrimonio mondiale di beni culturali, che sono il frutto di questa cultura di integrazione fra la mano e il cervello, che può rilanciare le basi della cultura occidentale e non cedere sulle conquiste del rinascimento.
La carta vincente sono libri come Immigrazione. Tutto quello che dovremmo sapere (di G. C. Blangiardo, G. Gaiani e G. Valditara, edito da Aracne), che offrono strumenti di lucidità anziché coltivare la paura della morte per meglio adattarsi alla condizione dei dhimmi. La nostra battaglia di civiltà esige che sia dissipata la paura, il vero motivo per cui “le città si perdono” (Machiavelli). L’Europa e l’occidente non tramontano se i loro cittadini sono impegnati a costituire dispositivi di arte e di invenzione, di cultura e di impresa, di scienza e di finanza, sono impegnati a costruire la città del secondo rinascimento, la cui luce è insopportabile per ogni ideologia della sottomissione e dell’illuminazione.

**Il testo di Caterina Giannelli è tratto dal suo intervento al convegno Immigrazione. Tutto quello che dovremmo sapere (Lecce, 27 maggio 2017)