LA REALTÀ NON È IL NULLA
L’etimo
di realtà, il latino realitas, ci riporta a res, cosa. La cosa
pubblica a Roma. La cosa in sé di Kant. L’esser-cosa della cosa di Heidegger. La
cosa freudiana di Lacan. La cosa è l’essere? La cosa è il linguaggio o è nel
linguaggio, dimora dell’essere? In Duns Scoto la realitas non era la realtà
esteriore, era l’esse in re della cosa: già nel XIII secolo il Doctor
Subtilis indicava che la realtà vincola la cosa all’essere, all’ontologia,
non a quel che appare. Confermava così il discorso occidentale, secondo cui,
fin da Aristotele (“Non tutto quello che appare è vero”, scriveva il filosofo
che Platone, suo maestro, chiamava nous, cioè “mente”), la realtà
non è realistica o naturalistica, è mentale, è concetto, (“noumeno”, direbbe
Kant) inattingibile ai sensi, presunti in balìa delle cose. Da allora, nel
discorso occidentale divenuto luogo comune, la realtà di qualcosa, per esempio
dell’impresa, sarebbe il suo essere, la sua vera natura, la sua sostanza. Poco
cambia che ci si appelli alla realtà interiore o esteriore: questo appello alla
realtà come verità della cosa è funzionale, da Platone a Marx, passando per
l’illuminismo, alla necessità della conoscenza – scienza comune, scienza della
comunità – che deve smascherare la falsa realtà, l’apparenza, la sovrastruttura.
Mai
come in quest’epoca la realtà deve sottostare alla conoscenza. Già dagli anni
settanta l’ideologia imperante non crede più che la realtà dell’impresa, per
esempio, stia nel suo capitale fisso (macchine, scorte, immobili) o nella sua
forza lavoro: per filosofi e sociologi à la page essa è definita dalla conoscenza
che la formalizzerebbe, dai saperi che ne farebbero discorso, dal linguaggio
che la strutturerebbe (già Ludwig Wittgenstein aveva scritto: “I limiti del mio
linguaggio sono i limiti del mio mondo”), dal pensiero che la in-formerebbe.
Per questa via la realtà è definita da quel che Marx chiamava general
intellect, e che oggi circola come knowledge sharing: conoscenza sociale,
condivisa, pensiero collettivo, che risponde allo spirito comunitario, alla
comunità come spirito della società. Infatti, questa realtà è pensata, ideata,
rappresentata, come spirituale: tutt’altro che operativa, pragmatica, intellettuale.
Tolta l’idea che opera alla scrittura della vita, l’idea che nessuno sa e
nessuno concepisce, resta lo spirito della conoscenza, lo spirito che concepisce,
che crea, che agisce. Ecco la nuova gnosi.
Questa
impostazione spirituale oggi compie un passo ulteriore, entra nella mistica. La
presunta conoscenza non servirebbe più alla definizione della realtà
dell’impresa, della famiglia, della città, ma diventerebbe la loro stessa realtà:
l’impresa sarebbe l’insieme delle sue conoscenze, dei suoi saperi, delle sue
pratiche discorsive, ovvero dei suoi storytelling, e farebbe perno sul capitale
umano, come scriveva in Human Capital Gary Backer, ovvero sul capitale
immateriale, come lo definisce André Gorz nel libro L’immateriale. Capitale
umano, solidale, buono, che viene opposto al capitale presunto numerico,
iniquo, cattivo; capitale immateriale, che viene opposto al capitale considerato
come accumulazione e consumazione della materia. Per Gorz “la conoscenza può
essere considerata la nuova forma di capitale attraverso la quale si esprime la
capacità di creazione delle società moderne”. La capacità di creazione si
esprime attraverso la conoscenza, la conoscenza è “forza di produzione”, di
creazione. Dal nulla alla luce, all’illuminazione con cui la luce si fa nulla:
ecco la creazione, illusione illuministico-romantica. Gorz sostiene che
“l’economia visibile, detta formale, è solo una parte ridotta dell’economia
totale. Il suo dominio su quest’ultima ha reso invisibile l’esistenza di
un’economia primaria fatta di attività, di scambi e di relazioni non mercantili
mediante i quali sono prodotti il senso, la capacità di amare, di cooperare, di
sentire, di legarsi agli altri, di vivere in pace con il proprio corpo e la
propria natura”. Economia visibile, economia invisibile: Gorz incappa nella
dicotomia visibile/invisibile, nascosto/manifesto, tipica della mistica. L’immateriale
– ridotto al senso, all’amore, al sentire, al cooperare – è invisibile, e
questa realtà invisibile è la vera realtà, coperta da quella materiale, visibile.
L’invisibile,
l’occulto, il nascosto: questa non è la realtà intellettuale, è la realtà
mistica, tanto più realmente mistica quanto più pronta a divenire visibile. Deus
absconditus, Deus rivelatus: la realtà invisibile, spirituale, è nascosta e
può manifestarsi, diventa ideofania. Realtà rivelata. Così l’iniziazione diviene
base di ogni socializzazione, fondata sulla purificazione e sulla
rigenerazione. Solo quando il presunto essere è degradato sorge il nulla come
realtà ideale, come nome dell’immateriale, come purezza nascosta. L’inconoscenza
è il modo della conoscenza, scriveva Pseudo-Dionigi l’Aereopagita nei suoi
scritti mistici. E Martin Heidegger, secondo cui è il nulla a svelare il senso
dell’essere, cita Hegel: “il puro essere e il puro nulla è lo stesso”. Del
riferimento a questa realtà pura, spirituale e mistica si nutre ogni potere,
che si fonda sul nulla, che manifesta il nulla perché venga condiviso,
partecipato fino a divenire la realtà. Condivisione, sostenibilità, inclusività,
utilità sociale: ripetuti in ogni documento dell’Unione europea come mantra dei
poteri forti, questi sono i valori che dovrebbero definire la realtà
dell’impresa, valori del nulla, il nulla come valore. Ecco le direttive europee
per ottenere fondi: annullatevi, così sopravvivrete, ovvero la morte per non
morire, come voleva il mistico Jakob Böhme. Sotto il segno dell’esoterismo, che
imperversa nelle burocrazie europee, cioè tedesco-islamiche (dall’intesa tra
Hitler e Hag’ Amin al- Husayni, mufti di Gerusalemme e alleato di Hasan
al-Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, fino alle attuali commistioni
ideologiche e economiche tra Germania e paesi islamici), con la complicità
della Francia e l’apporto di molti tribunali italiani, tutto diventa falso
perché il falso diventi il tutto, niente è vero perché il vero diventi niente,
in particolare nel caso dell’arte, della cultura, dell’impresa. Assumono questo
compito iniziatico anche le professioni, e la stessa psicanalisi, magari quella
lacaniana, se presunta professione: rendere visibile l’invisibile, portare a
realtà il nulla, estrarre un senso buono per ogni soggettività, promuovere una
realtà psichica, dal latente al manifesto. Anche il transfert, nella
definizione proposta da Jacques Lacan, diventa forma dell’ideofania. Così la
realtà diventa il probabile, il possibile, l’ipotizzabile, il credibile, l’immaginabile:
in altri termini, il pensabile, il pensiero che si fa mente, il mentale, la
mentalità. La mentalità è il pensiero socialmente corretto, circolare, condiviso,
lo psichico collettivo, la realtà epurata dalla parola.
Eppure,
ciascuno, parlando, facendo, vivendo, constata che se la realtà non si identifica
con la natura, con il concreto, con il visibile, essa non è nemmeno mentale,
soggettiva, psichica, descritta da algoritmi o sancita da una comunità, magari
“scientifica”. La realtà del dire e del fare è realtà della parola, realtà intellettuale:
realtà della parola, non indicizzata, dunque non spirituale, realtà pragmatica,
non concreta, dunque non mentale. Già nel novembre 1984, al convegno d’inaugurazione
della Villa San Carlo Borromeo, Federico Faggin, l’inventore del
microprocessore, indicava che la realtà non è retta dall’algoritmo. Come
potrebbero l’hackeraggio planetario, la condivisione dei dati e la gratuità
delle conoscenze risultare “l’abbozzo di una nuova organizzazione del lavoro
[...] e portare a una nuova economia”, come scrive Gorz? Risultano semmai la
consacrazione, riveduta e corretta, della realtà purificata, inintellettuale,
di un nuovo modo della padronanza: “Questa pratica – scrive Gorz – intende
contendere al capitale il terreno particolarmente sensibile, dal punto di vista
strategico, della produzione, dell’orientamento, della divisione e della
proprietà dei saperi”. Contesa sulla padronanza, contesa sul “terreno
sensibile”, contesa sul nulla: il principio del nulla è il principio della
padronanza.
La
partita della realtà intellettuale non si gioca sul terreno sensibile della proprietà
dei saperi, bensì sul terreno dell’Altro irrappresentabile e impersonificabile:
terreno industriale, terreno del tempo, dell’arte e dell’invenzione, del
diritto e della ragione. Terreno del malinteso e non dell’intesa, della differenza
e della varietà e non della comunità sociale, terreno del pubblico e non della
società circolare. Il terreno della realtà è il terreno del fare.
La
realtà intellettuale esige il pubblico della cosa, non la cosa pubblica, che è
la realtà da condividere, da partecipare, da mostrare, da rivelare mantenendo
il cerimoniale segreto. La realtà che si rivela serba il segreto, con le sue
facce, l’inaccessibile e l’accesso: la società della trasparenza è la società segreta,
che postula la realtà sull’idea del nulla e la affida al determinismo, quindi
al fondamentalismo. La realtà intellettuale, cioè la realtà senza l’idea del
nulla, dell’immateriale, dello spirituale, del noetico, del latente, dello
psichico, è la realtà che esige la struttura della parola, non le strutture
elementari o profonde o formali. Struttura del racconto che poggia sul sogno e
sulla dimenticanza, il racconto in cui si costituisce l’impresa semplice,
leggera, del software. Come indicano le testimonianze degli imprenditori in
questo numero, la realtà dell’impresa esclude la dicotomia tra software e
manifattura: entrambe esigono la mano, che è intellettuale, non la protesi, lo
strumento dell’intelligenza che, secondo le visioni dei futurologi, diverrà
onnipotente e prenderà il posto dell’intelligenza. “Vidi il nulla e questo
nulla era Dio”: Paolo definisce la traiettoria di Ray Kurzweil e dei transumanisti:
la scienza diventa dio, l’uomo diventa dio, l’uomo diventa il nulla. L’upload
della mente è l’upload del nulla.
Il
racconto che struttura l’impresa nuova, l’impresa intellettuale, non è lo
storytelling, non sono le pratiche discorsive e narrative, le storie che
definiscono i profili dei social, “il coinvolgimento personale, la capacità di amare,
di cooperare, di sentire, di legarsi agli altri” di Gorz, l’attività cooperante
o “i sistemi di aiuto e di mutuo soccorso che ci aiutano a scambiare conoscenze,
a prendere iniziative che ci permettano di sfuggire alla miseria e alla noia”,
come enuncia un testo del movimento “Agire contro la disoccupazione”, citato da
Gorz. Il racconto con cui si scrive la realtà dell’impresa, della famiglia,
della città non trova le sue basi sui diritti di una presunta soggettività
(diritto all’accesso? diritto al lavoro? diritto all’accoglienza?), cioè sul
nulla, perché non è lo storytelling dell’imprenditore mecenate o del cittadino
solidale, magari con l’immigrazione clandestina, come sottolineano gli
interventi del dibattito sui migranti. Dicendo, facendo, scrivendo, senza più
bisogno dell’idea di bene, il racconto che trae la famiglia, l’impresa, la
città alla qualità è intessuto dall’azzardo, dall’inconveniente, dallo spirito
costruttivo, dalla scommessa e dal rischio, dalla prova di realtà e di verità
che ciascun giorno la vita e l’impresa esigono.
La
realtà non è psichica perché poggia sulla prova pulsionale, prova
intellettuale, prova pragmatica. La prova esige l’industria, la struttura
materiale della parola, non la struttura formale o sociale o spirituale. Quale
realtà dell’industria e dell’impresa senza la struttura materiale? Quale prova di
realtà e di verità senza le struttura della parola? La realtà dell’impresa,
della famiglia, della città non è immateriale, è materiale, anche se
insostanziale, perché poggia sull’esperienza, sulla memoria come ciò che si
enuncia e si scrive dell’esperienza. E sui dispositivi di valorizzazione.
Realtà che non si nasconde, dunque, che non si manifesta, realtà non
inaccessibile, dunque senza l’accesso, che Jeremy Rifkin consacra come diritto.
Realtà sintattica, realtà frastica, realtà pragmatica: la cosa industriale è la
cosa intellettuale.