L'UTILITÀ DELLA TRASFORMAZIONE

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presidente della società di consulenza CUBO Srl, Bologna

Lei ha fondato la società di consulenza aziendale Cubo negli anni ottanta, in un contesto storico e economico oggi notevolmente cambiato. Quali sono le trasformazioni che ha attraversato il settore e in che termini la sua società di consulenza interviene?
Cubo nasce nel 1980, in seguito alla mia collaborazione con una storica società di consulenza italiana Orga, nata a Milano nel 1925, che poi è stata venduta. Negli anni ottanta c’era un grande fermento d’idee nelle aziende e gli imprenditori erano disposti a investire nella consulenza aziendale. Sono cambiate molte cose da allora, ma la peculiarità di una società come la nostra resta quella di essere sempre disposti a mettersi in discussione e ad adeguarsi ai continui cambiamenti del mercato. Nei primi anni in cui ho svolto la consulenza nell’ambito della ricerca e selezione del personale, concordavo con i clienti le caratteristiche dell’impiegato da selezionare secondo le funzioni richieste dall’azienda, che subito pagava un acconto del 50 per cento, prim’ancora di ricevere la fattura. Oggi non interviene più questa modalità, anche perché sono nate le società di lavoro interinale che, nella maggior parte dei casi, si limitano a fornire i curricula e a percepire il compenso dopo l’assunzione.
Un altro elemento di novità è intervenuto dal 1985, quando ho introdotto il cosiddetto lavoro di gruppo, perché avevo constatato che ottenevo maggiori risultati con la partecipazione alle riunioni dei responsabili dei diversi settori aziendali. Il processo aziendale, infatti, non può essere studiato soltanto tenendo conto di un determinato comparto. Considerando che il consulente ha il compito di dare suggerimenti per modificare e ridurre i tempi delle procedure e i costi dell’azienda, è necessario che sia a conoscenza delle dinamiche di più settori.
A quali imprese si rivolge la vostra consulenza?
In questi anni abbiamo collaborato con diverse aziende di grandi dimensioni, incominciando con il Gruppo Maccaferri e l’Alfa Farmaceutici, poi Alfa Wassermann, a Bologna e con la Bayer, nella sede milanese, proseguendo oggi con la Brembo e Pirelli a Milano.
Il nostro intervento si svolge in prevalenza nei gruppi industriali, perché chi vi lavora è più propenso a cambiare e le decisioni sono accolte in modo collaborativo, se maturano nell’ambito del gruppo. Anche se i risultati si conseguono soltanto se chi decide ha il mandato per assumere questa responsabilità, altrimenti tutto è bloccato.
In quali ambiti intervenite?
Diamo diversi tipi di consulenza. Il nostro core business è costituito dai corsi tecnico-produttivi, che teniamo anche per la formazione, insieme alla Ford Aus- und Weiterbildung e V., il centro di formazione e di consulenza della Ford con sede in Germania, a Colonia. Ma seguiamo anche la ristrutturazione delle aziende, che implica la riorganizzazione della struttura, fino alla valutazione delle mansioni da assegnare ai dipendenti o all’assunzione di profili più congrui alle esigenze dell’azienda. Inoltre, teniamo corsi e seminari sulle diverse problematiche aziendali, soprattutto nel settore automotive.
In seguito ai grandi cambiamenti intervenuti negli anni della crisi, sono calate le richieste di consulenza per ristrutturazioni. L’incertezza del mercato ha favorito la riduzione dei costi all’interno delle imprese, con il licenziamento soprattutto di manager e dirigenti. Altre hanno declassato i lavoratori dal ruolo di dirigenti a quello di quadri, che però in molti casi continuavano a svolgere lo stesso lavoro di prima. Chi non ha accettato questo compromesso, ha presentato le sue dimissioni e ha aperto a sua volta società di consulenza.
Lei ha riscontrato differenze di approccio nel settore rispetto a quanto accade nelle imprese in Germania?
Le differenze sono di tipo culturale. In Italia si tende a chiedere la consulenza per interventi abbastanza limitati e circoscritti e questa modalità ha comportato alcuni svantaggi per le aziende. Se, infatti, esse richiedono la consulenza per modificare le procedure dell’ufficio acquisti, per esempio, quindi di un settore specifico, il risultato sarà limitato e comunque diverso da quello ottenuto se il nostro intervento avesse tenuto conto anche di altri comparti, come quelli della programmazione della produzione, del commerciale e della logistica. In Germania, i consulenti intervengono sull’intero processo, anche se il numero di consulenze è più ridotto.
Inoltre, in Italia, per un lungo periodo, le imprese hanno richiesto soltanto la formazione finanziata dalla Regione, dallo Stato o da altri vari enti: se non era finanziata, la formazione non veniva richiesta. Anche adesso la tendenza è quella di programmare la formazione soltanto quando le aziende ottengono finanziamenti. L’imprenditore è libero di scegliere gli argomenti che vuole approfondire con i consulenti, ma spesso deve limitarsi ai fondi erogati dalle istituzioni. Probabilmente, questa tendenza in Italia è favorita dall’elevata pressione fiscale sulle imprese. Negli anni ottanta, invece, imprenditori e manager rischiavano di più ed erano più propensi a investire nella consulenza.
La formazione finanziata dallo stato si può intendere come una forma di assistenzialismo?
Il problema è che in Italia non abbiamo più il vero imprenditore, cioè chi rischia e scommette, investendo in nuovi progetti, per cui è più facile che acquisti un nuovo macchinario invece di una nuova consulenza. L’investimento nella macchina industriale risponde all’esigenza di ottenere un determinato risultato, come quello di raddoppiare la produzione. Allo stesso modo, l’intervento del consulente può essere richiesto per ottenere una riduzione dei costi o dei tempi di produzione per rispondere meglio alle esigenze della clientela. In questo caso, quindi, l’imprenditore ha assunto il rischio dell’investimento, recuperato dai vantaggi conseguiti. Fra gli anni ottanta e i novanta era questa la tendenza. Poi, il cambio generazionale di imprenditori e dirigenti aziendali non ha favorito questo approccio, perché, nella maggior parte dei casi, non vogliono mettersi in discussione. Eppure, occorre mettersi in questione per conseguire un utile. L’imprenditoria di oggi non intende la consulenza come un mezzo per ottenere risultati e aumentare i fatturati. Anche investire in formazione non è utile se poi non è accompagnata da una consulenza specifica, perché è inevitabile che emergano le prime difficoltà in azienda, non appena sono attuate le nuove procedure. L’innovazione porta con sé sempre un rischio, ma, non sarà possibile conseguire risultati positivi senza questo rischio.
Lei constata una resistenza alla trasformazione dei processi nelle aziende, ma gli italiani sono noti nel mondo per inventare nuove modalità di produzione...
L’Italia è il paese che in Europa ha depositato più brevetti e questo dà la misura della notevole inventiva degli italiani e della loro capacità di trovare soluzioni alternative per risolvere i problemi. Ma quando si tratta di seguire le esigenze del mercato intervengono altre considerazioni. Un’azienda che opera nel packaging, per esempio, può inventare una macchina speciale per impacchettare il the nelle bustine. Dopo che ha brevettato la nuova macchina, accade che il mercato di riferimento non richieda più soltanto quella determinata bustina, ma forma e dimensioni ancora diverse e quindi l’azienda deve adeguarsi subito alla nuova esigenza, riprogettando parzialmente la macchina. La cosa più difficile nelle aziende è introdurre una nuova metodologia di lavoro.
Quali sono le prospettive per le imprese italiane?
Mi auguro che ritrovino la spinta per mettersi in discussione, invece di pensare a vendere al migliore offerente dinanzi alle prime difficoltà, perché questa è la tendenza attuale. Sono tante le imprese che sono fallite perché non hanno messo in questione il loro modo di organizzare il lavoro. Poi, la situazione di crisi che ha attraversato il mercato non è stata favorevole, però alla base del problema sta il fatto che molte di esse non hanno voluto anticipare le tendenze del mercato. Gli enunciati più diffusi erano: “Perché dovrei intervenire oggi per domani? Se intervengo oggi, non vedrò i risultati domattina”. La logica vincente, invece, è sempre stata quella per cui, se oggi incomincio a studiare un nuovo programma, che poi dovrò applicare e migliorare, soltanto dopo potrò ottenere risultati. Occorre almeno un anno per vedere i frutti della trasformazione in azienda e comunque sono decisivi i primi sei o sette mesi. Il mercato cambia in fretta, ma la trasformazione richiede tempi lunghi, soprattutto se occorre intervenire nell’organizzazione. È essenziale, quindi, prevedere i cambiamenti del mercato, perché non avvengono mai all’improvviso.
Allora, la questione è come accogliere la trasformazione?
È essenziale essere aperti alla novità per favorire la trasformazione, perché in ciascun caso è possibile perfezionare le procedure in maniera differente. Io parto dalla constatazione che ciascuna cosa si possa fare in maniera diversa. Chi ragiona in questo modo è più disposto a trovare la via per riuscire, la trasformazione avviene e si ottengono i vantaggi sperati, sempre.