IL CONTO E IL RACCONTO DELLA VITA: LA NARRAZIONE INTELLETTUALE. NON C'È PIÙ STORY TELLING
Quando i sociologi
parlano di modernità, l’associano al pluralismo sostenendo che oggi, rispetto all’antichità
in cui la vita era segnata da circostanze sociali e familiari senza
alternativa, l’uomo è libero di scegliere. Secondo questo stereotipo, la
modernità implicherebbe la possibilità e la padronanza sulla scelta. Questo
concetto è stato avallato e supportato dalle nuove tecnologie, investendo anche
il modo di intendere la comunicazione. Infatti, la comunicazione è
immediatamente associata al web e al concetto di rete, intesa come diffusione
orizzontale delle informazioni a cui “ognuno” potrebbe accedere per esercitare
una scelta.
Questo criterio di
orizzontalità e libero accesso ha investito anche altri ambiti della vita, come
la famiglia, l’azienda, la politica, portandovi l’idea della condivisione, dell’uguale
sociale, della conformazione, e avallando il fantasma di omologazione. Tutto
ciò anche come tentativo di metterlo in contrapposizione con l’autorità, e con l’auctoritas.
Ma è questa la modernità? Quali sono le implicazioni nel considerare la
modernità come possibilità di scegliere ciò che si vuole? Questa padronanza
sulla scelta fornisce il fondamento della credenza che la società sia
circolare, ovvero un contenitore in cui ogni cosa può essere messa in comune,
fatta circolare, essere condivisa. Allora, di ogni cosa o persona noi potremmo dire
che appartiene o non appartiene a quel circolo. E questo, per alcuni, risulta
rassicurante. La scelta di condivisione della macchina, della bicicletta, o
addirittura del tempo, viene proposta come novità assoluta, portatrice di nuovi
valori, di nuove idee, di nuovi sentimenti. E tuttavia, nonostante questa
idealità, proprio la rete mette in evidenza elementi molto marcati di conflitto
sociale: il web, che dovrebbe essere l’emblema della condivisione,
dell’orizzontalità, dell’accesso diretto e della fratellanza, diventa il
terreno dove risalta quello che viene chiamato hate speech, cioè il
discorso dell’odio, con tutti i suoi arcaismi.
In questa comunità
naturale fondata sulla condivisione, dove in realtà prosperano l’intolleranza e
l’invidia sociale, la cura dell’immagine diventa fondamentale. Intendere la modernità
come progresso, in antitesi a ciò che sarebbe vecchio, implica una negazione
del tempo e una comunità che fa cerchio. E il cerchio è la negazione assurda
del tempo, assurda perché non riesce. Secondo questa mentalità, l’immagine deve
significare, essere il segno dell’appartenenza o della non appartenenza, secondo
criteri standard. Quanti investimenti, quanti corsi, quanto tempo vengono
impiegati per costruire e mantenere un proprio profilo che, oggi più che mai,
diventa la definizione di un’identità? Ognuno costruisce un profilo e diventa
quel profilo. Tutto sembra ruotare attorno alla prosopopea della
rappresentazione di sé, una tentazione sostanziale. Pros ops, il volto
davanti: la prosopopea è il personaggio stesso. Così, da un lato regna un
fantasma di onnipotenza e, dall’altro, s’innesca un contraccolpo depressivo se qualcosa
interviene a macchiare e a deturpare quell’immagine. Basta un equivoco, un “mi
piace” in più o in meno perché anonimi grafomani si scatenino con valanghe di
messaggi aggressivi, insulti e offese.
La gestione del
profilo è uno degli scopi di quello che viene definito storytelling. Se la
modernità è la fantasia di poter scegliere, la differenza non è più differenza
assoluta (per cui ciascuno è caso unico), ma differenza per esclusione o
inclusione, differenza da. Questo rende necessario trovare gli escamotage
per differenziarsi. Lo storyteller, con la valigetta degli strumenti per
insegnare a differenziarsi, arriva puntuale. Anche il mercato del lavoro sembra
pervaso da questa mitologia. Molti giovani che cercano di avviare nuove imprese
vengono presi da questa ideologia della rappresentazione di sé, della vendita di
sé e si preoccupano della reputation risk: il rischio di impresa cede il
passo al rischio di reputazione, un nuovo moralismo non più controllato da
istituzioni come la Chiesa o la famiglia, un moralismo controllato dal sociale,
ovvero convenzionale. Si diffondono i manuali dedicati al personal branding per
gestire la propria immagine come se fosse una marca. In questo modo, la nostra
società è impegnata quotidianamente nella pratica dell’autosorveglianza, la
fantasia di controllo in nome della quale ognuno passa il tempo a controllare
il proprio profilo e il profilo dell’altro, per verificare i movimenti degli
amici o dei familiari (ad esempio con la app “Trova amici”), per sapere
anzitempo chi sarà o non sarà presente alla tale festa o nel tal luogo. Se la
sorveglianza è diventata pratica quotidiana, come sorprendersi del numero
crescente dei casi di panico? Il panico interviene proprio a sottolineare che
non c’è possibilità di scelta, che non c’è padronanza sul due e sul tempo e che
l’accesso non è mai diretto. Non c’è orizzontalità, non c’è familiarismo, non
c’è conoscenza, nemmeno dello spazio.
L’idea della
condivisione è semplicemente impossibile. Ha come contrappasso l’anfibologia
per cui da un lato partecipiamo alla società globalizzata e dall’altro viviamo
di piccoli mondi, ristretti, circolari, che dovrebbero avere una lingua comune.
Ognuna di queste community ha il suo storytelling costruito apposta per tenere
fuori la parola, la sua libertà e la sua provocazione. La community ruota
attorno a un frammento ben definito e condivisibile, e ogni frammento viene
tenuto ben distinto dall’altro, in modo tale che non ci sia l’Altro, il terreno
dove sta la novità. E così prospera l’eroismo della frazione, secondo il
fantasma geometrico: occuparsi di una cosa e non dell’altra, nella famiglia o
nell’azienda. Poi, invece, rispetto al fantasma algebrico, c’è l’eroismo che si
alimenta della rottura: rompere con tutto quello che sta prima e fondare un
nuovo ordine, creando sempre delle cose “nuove” che non abbiano niente a che
fare con le “vecchie”. Questi due eroismi sono molto praticati, sono divenuti mentalità
promosse dalla moda dello storytelling. Ma l’eroe che divide o che rompe non
racconta. Fa l’eroe del format, del formato spettacolare. Il racconto si fa
dell’anomalia, ha come condizione la provocazione, esige l’Altro, l’inedito, e,
pertanto, non si fonda sulla frammentazione o sulla rottura. Ciò che è definito
storytelling è una narrazione drogologica, che nega il racconto, perché è senza
tensione narrativa. In questa accezione, lo storytelling ha la funzione della
cartella clinica, fa la diagnosi e prescrive il medicamento, cioè la soluzione.
E il fine è sempre la realizzazione di sé. “Il potere dello storytelling è
plasmare la propria realtà, è l’arte di emergere e farsi notare”. Così recita
uno dei tanti manuali di storytelling che hanno questa finalità: promuovere
narrazioni costruite ad hoc per il riconoscimento sociale, il consenso sociale
e l’approvazione sociale. Per lo spettacolo.
Anni fa l’arte e la
cultura venivano ritenute inutili e molto distanti dalla realtà dell’azienda,
poi ci si è resi conto che soltanto con i numeri e bilanci non si comunicava,
non si trasmetteva, non si vendeva. E quindi è sorto l’interesse per il
racconto. Molte aziende hanno incominciato a far scrivere la propria storia. Il
disagio è sempre domanda intellettuale, quindi, dobbiamo considerare questo
interesse per la comunicazione da parte delle aziende come un’istanza
intellettuale e originaria. Purtroppo, come spesso accade con il disagio, la
domanda viene colmata con la risposta pronta, con il pacchetto, con lo
psicofarmaco. Nelle storie aziendali troviamo scritto che non si poteva più
proseguire con la sola contabilità perché si vive di storie e, quindi, vanno
valorizzate la storia e il racconto. Questo è vero, tuttavia lo storytelling
propone un racconto finalizzato a raccogliere dati da leggere comunque
contabilmente, per esempio per contabilizzare i like, i consensi e le
risposte positive. Questa soluzione non comporta una vera elaborazione del fantasma
di contabilizzazione, che viene semplicemente aggirato. Per questa ragione, alcuni
imprenditori sprovveduti ritrovano confermata, sotto forma di like, di
consensi e risposte positive, quell’idea di contabilizzazione cui non riescono
rinunciare.
Ma le cose procedono
dalla questione aperta, ovvero dal nodo. Attraverso la lettura delle più
importanti opere letterarie, constatiamo che la narrazione procede da quello che
i tecnici della narratologia chiamano il “conflitto”, trasformato così in
rappresentazione del nodo, cioè della relazione, dell’inconciliabile, della
questione aperta. E il romanzo, con la tensione narrativa che lo caratterizza, procede
dall’impossibile soluzione del nodo, mentre lo storytelling presume di
risolverlo. Nel caso delle imprese, per esempio, le indicazioni che leggiamo
nei manuali di storytelling sono: bisogna capire che cosa si vuole dire,
selezionare il materiale, stabilire se il destinatario è interno o esterno
all’azienda, per esempio, se è un collaboratore o un cliente e se va
conquistato o convinto ad andarsene. Tutto definito, tutto risolto. Come far
passare per racconto lo storytelling?
Freud si è interessato
ai poeti, agli scrittori. Anzi, diceva che i poeti sono alleati preziosi per lo
psicanalista e che proprio attraverso la lettura delle grandi opere letterarie
è riuscito a formulare alcune novità. La psicanalisi e la cifrematica si
avvalgono della lettura delle opere degli scrittori e dei poeti, ma anche delle
testimonianze degli imprenditori, perché in esse c’è l’istanza di
valorizzazione dell’anomalia, che non può essere corretta, inquadrata secondo lo
standard per ottenere consenso. Non credo proprio che Dostoevskij e Proust
cercassero il consenso. Chi cercava il consenso poteva essere un certo Anthony
Trollope, uno scrittore inglese dell’ottocento, il quale vendeva tantissimo, ed
era molto noto. Ma, terminata l’epoca, l’interesse per i suoi libri è andato
scemando, perché lui era grandissimo produttore di storie secondo gli schemi
standard dell’epoca in cui è vissuto.
Affinché qualcosa
resti, è indispensabile la valorizzazione della particolarità e dell’anomalia.
I tecnici coinvolti per scrivere il caso aziendale, nella maggior parte dei
casi, producono testi che non vengono letti, se non per dovere. Sono forme di
metanarrazione ideologica, ridondante e inutile. Il racconto non mette in
ordine il vissuto, non riproduce il vissuto, ma inaugura l’avvenimento. I testi
prodotti dallo storytelling non comportano l’avvenimento, tantomeno l’evento.
La proposta dello storytelling risponde al fantasma di riscatto sociale,
genealogico, all’idea di realizzarsi, di differenziarsi, per affermarsi.
Operazione vana. Il conto e racconto della vita, indispensabili per la riuscita
dell’impresa, comportano una tessitura inedita dove sorge la novità, perché si fa
di impensabile e inimmaginabile. In breve, nonostante tutto lo sforzo che
possiamo fare, nonostante tutta la buona volontà, non viviamo di storytelling.
Ogni proposta ideologica segna un’epoca, e non ha altra chance. Invece, il conto
e il racconto della vita vincono sempre. Senza alternativa. Lo storytelling è
utilizzato per finalità finanziarie, che risentono della contabilizzazione, non
del racconto. Altra cosa la valorizzazione finanziaria instaurata dal racconto,
immune dall’euforia e dalla disforia, senza più paura del toro o dell’orso.