PERCHÉ LA MONETA NON UNIFICA
Sarà ricordata come la
più grande operazione di cambio di valuta della storia, l’introduzione
dell’Euro, la moneta che, dal gennaio 2002, è utilizzata dai milioni di
cittadini dei paesi dell’Unione Europea. La moneta unica, come l’istituzione del
mercato unico, avrebbe dovuto sancire la comune identità del continente. Negli
intenti delle istituzioni europee, questa comunanza doveva costituire la via
sicura per favorire la crescita economica e elevati tassi di occupazione, oltre
a una maggiore efficienza e una solidità economica. Tuttavia, questi risultati
non sono stati raggiunti, come documenta il libro Quindici anni di
riflessioni sull’euro di Tomaso Freddi. L’autore prova come questo ideale
di unità abbia portato alla tirannia del più forte.
La moneta unica è
sorta dalla constatazione che l’Europa era, parafrasando Klemens von
Metternich, poco più che un’espressione geografica. Vi è chi ha creduto,
quindi, che occorresse un denominatore comune per identificare l’Unione. La
moneta poteva prestarsi a questo scopo, ma gli eventi hanno smentito questa idealità.
Sin dalla sua
invenzione, la moneta interviene per favorire il mercato, perché garantisce il
valore delle merci, è condizione dello scambio. Sulla moneta viene apposta
l’effige dell’autorità politica, per attestare, simbolicamente, la legittimità
dello scambio e per autenticare il valore della sostituzione di una merce con un’altra,
il qui pro quo, l’equivoco che è alla base del mercato. La moneta non
può prescindere dalla funzione di autorità, funzione che instaura il simbolico
e senza cui non c’è mercato: la merce non ha nessun interesse di per sé, lo
acquisisce se diviene simbolo, lungo la via dell’equivoco. Indotta dalla
struttura del qui pro quo, la moneta risulta oggetto
dell’identificazione per chi se ne avvale negli scambi, e la assume come
garanzia del valore. Ma la questione, indicata dalla cifrematica e colta nel
libro di Freddi, è che l’identificazione non è unificazione e la moneta non basta
a fondare un’unità, per esempio il consenso o un sapere comune. L’idea di unità
non ammette equivoco, il qui pro quo dello scambio, ma cerca
l’equivalenza intesa come ripetizione dell’uguale. Nel mercato, invece,
importano l’equivoco e la differenza, senza cui la merce non troverebbe un
valore simbolico. Perché ciascuno andrebbe al mercato, se sapesse già quello
che troverà? Come qualcosa acquisisce valore, se non diviene simbolo?
La moneta, quindi,
interviene non come denominatore comune o equivalente generale, ma come garante
dello scambio. L’identificazione poggia sull’idioma, sulla logica particolare, non
sulla sua soppressione. Nel caso dell’Unione Europea, questa sostituzione
simbolica non ha funzionato sin dall’inizio, perché la moneta concerne un punto
astratto, che è condizione dell’identificazione e non concerne l’unità. La
stessa idea della lira, per esempio, operava in modo diverso per gli italiani
dall’idea del marco per i tedeschi. L’idioma che indicava la moneta di ciascun
paese è stato inteso come limite, allo stesso modo di com’è inteso un limite
l’idioma di ciascuna impresa. La particolarità sarebbe limitante e, pertanto, mai
come nell’era della globalizzazione, molti sono stati gli appelli all’unità e all’uniformità
delle procedure.
Unificare l’idioma,
nella credenza della comunanza del simbolo o dell’equivalente generale,
funzionale allo standard, comporta abolire la struttura materiale del come
operano e del come funzionano le cose, del modo che segue la logica particolare
della parola. Questa abolizione si traduce nell’abolizione dell’industria.
Pertanto, se si parte
dall’assunto che l’Europa è un’entità unica, una e identica a sé, ne consegue che
la moneta sia intesa come unità che misura il valore secondo lo standard che
corrisponde a questa identità. Ecco perché questa Europa è così impegnata a
stabilire la misura unica delle merci, persino delle zucchine o delle mele,
scambiando lo standard, effetto del principio d’identità e di unità, con la
misura della qualità, cui invece si giunge procedendo dall’apertura. Altri esempi
di questa ideologia che poggia sull’identità e sull’equivalenza sono gli studi
di settore e gli standard di qualità applicati per valutare la corretta
amministrazione delle aziende.
Freddi nota che “Il
nostro paese è caratterizzato da una risorsa ancora in larga misura latente,
che potrebbe fare la differenza e che è tipica della nostra gente: lo sviluppo
del lavoro autonomo”. L’autore prosegue affermando che “in futuro
l’organizzazione del lavoro richiederà sempre più partecipazione diretta,
maggiore capacità di autogestirsi e l’assunzione di una parte del rischio”;
“sarà necessario – scrive Freddi – puntare sulla qualità del lavoro e non sulla
quantità”. Il contributo dell’arte e dell’invenzione di ciascuno sarà quindi
determinante per la riuscita delle imprese e di ciascuno. Il brainworker del
nuovo millennio è colui che non intende il lavoro come la corretta esecuzione
della procedura in base agli standard, stabiliti in nome di una correttezza che
risponde a canoni ideali e si risolve nel frenare nuovi modi di costruire l’impresa
e la città. L’invenzione, nella maggior parte dei casi, è effetto di un errore
di calcolo, di una diseguaglianza, di una differenza e di una particolarità
inarginabili.
L’euro non funziona
perché non è altro che la rappresentazione impossibile dell’identità di
un’Europa, che, invece, ha una storia intessuta di anomalie e differenze che
non possiamo unificare. Ma esse costituiscono un’opportunità, come insegnano la
miriade di piccole e medie imprese in Italia, che la rendono caso di eccellenza
nel pianeta.
**Il testo di Caterina Giannelli è tratto dal suo intervento al convegno La libertà, la giustizia, la città moderna (Bologna, 20 febbraio 2018)