LE TRE USURE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Lo storytelling del politicamente corretto inneggia all’importanza dell’utile: fioccano gli inviti a fare qualcosa di utile, per se stessi e gli altri, o a rendersi utile, collaborando per il bene comune. I più audaci invitano a mirare all’utile, purché, beninteso, non contrasti con l’etica sociale e non sia confuso con il profitto, cui viene quasi sempre attribuito l’aggettivo “ingiusto”, soprattutto se si tratta di utili d’impresa. L’importante è che non ci sia qualcosa di inutile o di inutilizzabile: le campagne contro lo spreco, così in voga, esigono che le cose siano utili, utilizzate nel modo migliore e soprattutto riutilizzabili. L’imperativo è riciclare, rimettere in circolo, rigenerare. La società circolare non ammette il resto, l’eccedenza, il superfluo: tutto deve essere finalizzato all’utilità sociale, intesa come bene comune. Ciascuna cosa deve risultare utile, viene legittimata in un’economia del negativo, chiamata una volta ottimismo della volontà e oggi ragione sufficiente: dall’ignobile tratta degli africani, che viene giustificata come operazione umanitaria e apportatrice di risorse, alla legalizzazione dell'eutanasia, imposta in nome della libertà di scelta, la libertà di morire.
Nell’ideologia della società circolare, fondata sul relativismo, l’utile è quel che si può usare, e che viene usato in modo corretto, cioè secondo un fine corretto. Così il finalismo, la causa finale di Aristotele, prende il posto dell’utile: diventa utile quel che serve al fine. E vana risulta la dicotomia tra il fine intrinseco nella cosa e il fine stabilito dalle convenzioni: cancella la constatazione che anche quel che è creduto proprietà dell’essere è una convenzione, credenza o immaginazione che sia.
La questione è che valutare l’utilità dei nostri atti rispetto a un fine procede dall’idea di conoscenza: conoscenza dei mezzi, delle capacità, degli obiettivi, ovvero l’idea di sapere già da dove si venga e dove si debba arrivare. Da qui lo scacco del finalismo: presumere di sapere come e dove debbano andare le cose porta a escludere quel che non è previsto da questa presunzione, dunque l’anomalia, l’abuso, la varietà, la differenza, l’invenzione, la novità. Come pervenire all’utile escludendo queste prerogative del viaggio di ciascuno e dell’impresa? Questa utilità sarebbe la morte: utilità della morte, funzionalità della morte. Che cosa indica la spettacolarizzazione della morte dei migranti o delle vittime del terrorismo, se non che la morte è utile, funzionale alla circolarità? Un’impresa non può giungere al profitto se entra in questa circolarità, se finalizza ogni suo atto per un fantasma di morte. Il progetto e il programma non servono per finalizzare l’attività, occorrono perché la ricerca e il fare dell’impresa e di ciascuno si scrivano, proprio avvalendosi dell’improbabile e dell’imprevedibile.
“Meditare su ciò che è utile è il più sicuro degli indugi”, scriveva il drammaturgo romano Publilio Siro. Nessuno può rappresentarsi da dove viene l’utile, né come raggiugerlo, né quale è stato o quale sarà. Nulla è mai detto, nulla è mai fatto. È utile quel che non è stato detto, è utile quel che non è stato fatto. L’utile non è né il bene né il condivisibile – come nota nel suo intervento Bruno Conti –, non è un fine, proviene dal dire e dal fare: l’utilità è narrativa, dunque pragmatica. Questo dunque indica che il fare non prescinde dalla parola, esige il racconto e giunge all’utile quando il racconto si scrive.
Per questo – come nota Antonella Silvestrini –, il racconto non può ridursi allo storytelling, che è descrittivo, persuasivo, finalizzato alla riuscita come affermazione di sé o dell’Altro, per cui deve soddisfare il senso comune, il sapere comune e l’opinione comune. Se nulla è mai detto e nulla è mai fatto, il racconto che giunge all’utilità pragmatica poggia sul sogno e sulla dimenticanza, non sul realismo o sull’altra sua faccia, l’idealità. Nessun progetto e nessun programma possono prescindere dal sogno e dalla dimenticanza: cedere sul racconto, cedere sul sogno e sulla dimenticanza sbarra la via dell’utile. E della sua punta, il futile.
Al conto della ricerca che si scrive e al racconto dell’impresa che si scrive, e scrivendosi giunge all’utile, giovano la metafora, la metonimia e la catacresi, le tre utilità della parola. Esse non sono concrete né spirituali, attuano tre usure che ogni potere cerca di condannare e di punire perché non sono finalizzabili. Per questo il discorso giudiziario, che è strumento della società penitenziaria – perché gestisce gli umani attraverso gli istituti della vendetta, della colpa e della pena – considera false e ingannevoli la metafora, la metonimia e la catacresi e le sottopone al misurabile e al contabile. Eppure, proprio la catacresi (dal greco catachresis, abuso) indica quanto l’utile pragmatico non sia misurabile o calcolabile, sia abutile: il fare è la struttura per abuso, come struttura dell’Altro, è struttura narrativa, è struttura del racconto, è struttura con cui l’impresa si scrive. E gli utensili di cui ciascuno si avvale, nel lavoro, nell’arte e nell’impresa, sorgono dalla catacresi, dall’abuso linguistico: gli ordini professionali e confessionali sono deputati a combatterlo, ma invano.
Che nella metafora, nella metonimia e nella catacresi si tratti di usura indica come esse non possano prescindere dalla moneta e dalle sue virtù. Punto di astrazione, garante dell’economia e della finanza, la moneta non si usura, è condizione delle tre usure. Inafferrabile, la moneta è simulacro che l’economia politica non riesce a padroneggiare. Simul è con, il con della condizione, non della comunità ideale e dell’accomunare. La moneta non accomuna, non circola e non è circolare, è condizione della differenza e della varietà: oggetto dell’identificazione, non è divisa né condivisa, per questo non riesce a garantire né l’unione né l’unità, come indicano le vicende dell’Europa. Gli interventi di Tomaso Freddi e di Giovanni Giorgini evidenziano che gli scacchi in cui si sono imbattute le burocrazie europee dipendono dall’avere imposto un’unità monetaria, un’Europa dell’unione anziché della differenza e della varietà, un’Europa dell’unificazione, funzionale alla società circolare, anziché dell’integrazione, ovvero, secondo l’etimo di integrazione, un’Europa cattolica.