GAPE DUE SPA: LA FORZA DEI PRIMI CINQUANT'ANNI

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di Gape Due Spa, Sassuolo (MO)

Quest’anno Gape Due Spa celebra il cinquantenario dell’attività e oggi, fra le venticinque aziende produttrici di stampi per ceramica rimaste nel comprensorio di Sassuolo, è la più importante in termini di fatturato, dimensioni e qualità riconosciuta dai clienti. Ma chi lavora in azienda da poco forse pensa che sia sempre stata così…
Addirittura, c’è chi crede che io l’abbia ereditata da mio padre.
Invece, come lei ha accennato nella precedente intervista, tutto incominciò nel 1967, quando due giovani, lei e Domenico Pellacani, si misero in proprio, dopo aver lavorato per cinque anni alla Marazzi. Qual era la forza che vi spingeva verso questa avventura?
Con una piccola somma di denaro, percepita in seguito al licenziamento, incominciammo a pensare quale attività intraprendere. Mio padre faceva il muratore e non aveva un gran stipendio, per cui da ragazzo avevo vissuto anni molto difficili. Così, fin dall’età di 17 anni, pensavo cosa avrei potuto fare per migliorare le mie condizioni economiche e quelle della mia famiglia. Per me, Pellacani era come un fratello, oltre a aver lavorato insieme alla Marazzi, avevamo frequentato la stessa scuola, l’Acal, fondata da don Dorino Conte. Quando ci licenziammo, iniziammo a chiederci quale sarebbe stata l’attività più semplice e meno onerosa e, poiché suo padre era agricoltore e aveva un podere, pensammo di fare gli apicoltori. Quando però ci consultammo con alcuni apicoltori che lavoravano da anni, ci rendemmo conto che quello non era il nostro mestiere.
Nei cinque anni di esperienza in officina alla Marazzi, io avevo lavorato come fresatore e il mio socio come rettificatore, ma avevamo imparato a avere dimestichezza con tanti tipi di lavorazione. Allora, ci venne l’idea di produrre stampi per ceramiche. Tra parentesi, lasciare un posto di lavoro sicuro, che all’epoca era una fortuna, soprattutto in una fabbrica così solida e rinomata già allora, la più grande del comprensorio, era considerata una pazzia assoluta. Per non parlare dell’opposizione dei nostri genitori: mio padre non dormiva più e, come venni a sapere in seguito, andava dai parenti a cercare conforto per la sua disperazione. Ma mi lasciò fare, forse perché constatava che ero molto deciso.
Un giorno raccontammo le nostre intenzioni a un nostro ex compagno di scuola, Ivano Messori, che aveva iniziato a fare il rappresentante di macchine utensili. Quando confessammo a Messori che volevamo partire ma non avevamo grandi mezzi, accadde un vero miracolo: ci presentò Bruno Marchelli di Parma, un commerciante di macchine utensili, che aveva tutto ciò che serviva a un’officina meccanica per avviare l’attività. Ebbene, questo signore ci vendette tutte le attrezzature necessarie per produrre stampi, per un importo di 11 milioni di lire, basandosi semplicemente sulla fiducia che aveva in Messori o forse in noi, anche se eravamo due giovani di ventidue anni. Per dare un’idea del gesto, preciso che lo stipendio di un operaio specializzato in ceramica all’epoca era di 80.000 lire al mese.
Il posto dove avviare l’officina non fu difficile da trovare: mio padre non aveva l’auto, ma aveva un garage, che quindi potevamo utilizzare tranquillamente. All’epoca molte cose avvenivano grazie all’amicizia e un mio amico, che faceva l’elettricista, anche lui compagno di scuola all’Acal di don Dorino (che aveva avviato corsi per divenire meccanico, autoriparatore, tornitore, addirittura falegname), installò l’impianto elettrico nel garage, facendoci pagare soltanto il materiale.
Poi costruimmo noi stessi i banchi e gli scaffali in ferro e, dopo due o tre mesi, eravamo pronti per incominciare a visitare le aziende ceramiche del comprensorio in cerca di lavoro. Mi viene da ridere se penso a questi due ragazzi che entravano negli stabilimenti di produzione con i loro bei grembiuli verdi con la scritta “Gape”, pretendendo attenzione senza considerare le tante officine che realizzavano stampi da anni. I capi stabilimento ci chiedevano: “Dove avete l’officina?”. “Sul ponte nuovo”, rispondevamo, sperando che a nessuno di loro venisse in mente di visitare la nostra “azienda”, posta sotto una casa a due piani, dove abitavano la mia famiglia e quella di mia zia.
Il secondo miracolo accadde quando Abramo Miglioli, titolare di una grande officina che produceva stampi a Sassuolo, venne a farci visita per accertarsi che avessimo le attrezzature giuste per collaborare con lui, perché aveva avuto un surplus di lavoro e doveva soddisfare una domanda sempre in crescita. All’epoca, nel comprensorio nasceva una fabbrica di ceramica ogni sei mesi e chi faceva bene il proprio mestiere non rimaneva disoccupato. Così, incominciammo a lavorare giorno e notte, nel senso letterale del termine, con grande gioia dei vicini: nessuno riusciva più a dormire, né i miei genitori né mia zia né gli abitanti delle case confinanti. Per fortuna, non fecero denuncia ma sopportarono per tre anni il rumore che facevamo giorno e notte. Finché non acquistammo un terreno sulla circonvallazione di Sassuolo, dove costruimmo un primo piccolo capannone di 250 metri quadri, che, dopo pochissimi anni, ampliammo a 500 metri quadri. Poi, siccome avevamo utilizzato tutto il terreno disponibile, prendemmo in affitto un altro capannone, fortunatamente sulla strada adiacente. Da allora, fu sempre un crescendo, anche perché intanto ci eravamo fatti apprezzare dai clienti, dando il massimo. Inoltre, le industrie ceramiche a quei tempi non badavano a spese, poiché avevano margini altissimi; l’unica cosa importante era poter contare su fornitori affidabili. Ecco perché, in quel periodo, non avevamo bisogno di agenti, erano i clienti a cercare i fornitori che, come noi, offrivano un prodotto di qualità.
Un’altra svolta intervenne nel 1975, quando urbanizzarono il terreno agricolo sul quale abbiamo costruito il capannone di 2000 metri quadri, dove siamo ancora oggi. Quando incominciammo a costruirlo, vedendo questi spazi immensi, pensavo che non saremmo mai riusciti a utilizzarli tutti, mi sembravano esagerati rispetto ai 500 metri in cui eravamo abituati a lavorare.
E quando siete riusciti a utilizzarlo a regime?
Anche questa è una storia incredibile: ci trasferimmo nel 1981 e, a pochi mesi, intervenne una di quelle crisi tipiche di un settore con andamento ciclico come il ceramico, che durò fino al 1986. Non poteva capitare in un momento peggiore: avevamo sulle spalle l’investimento per la costruzione del capannone, per il trasloco di tutti gli impianti e per l’acquisizione di due macchine in più rispetto a quelle che avevamo nella vecchia sede. Naturalmente, le aziende nostre clienti erano a corto di liquidità oppure facevano finta di non averne, quindi, pagavano in natura: al posto dei soldi, che ci dovevano per gli stampi acquistati, ci davano piastrelle. A un certo punto, il cortile della nostra azienda non aveva più posto per gli stampi. Così, non ci restava che diventare “commercianti di piastrelle”: sempre grazie alle amicizie, incontrammo alcuni bravi venditori, che riuscirono a portare le nostre scorte in tutto il mondo, in particolare nei paesi asiatici; con “lauti guadagni”, perché compravamo a 6000 lire al metro quadro e vendevamo a 5000, pur di monetizzare. Avevamo un disperato bisogno di soldi perché dovevamo pagare i debiti.
Ma all’epoca avevate già incominciato a rivolgervi al mercato estero per l’esportazione degli stampi?
Nel 1975, un amico ci presentò un signore, che lavorava nel settore della ceramica e viveva in Francia, il quale ci propose d’introdurci nel mercato francese. Era un avvenimento, perché le ceramiche nostre clienti erano situate nel raggio di qualche centinaio di chilometri, al massimo arrivavamo a Imola e a Faenza. Dopo avere stabilito un accordo con questo signore, constatammo quante difficoltà intervenivano lavorando con quel paese: i francesi non sopportavano gli italiani e facevano di tutto per ostacolarci, pensavano di essere i primi al mondo, invece avevano una tecnologia molto più arretrata rispetto a quella delle aziende di Sassuolo. È stata una battaglia durissima, perché consideravano i prodotti italiani pari a zero. Tuttavia, una ceramica dopo l’altra, siamo riusciti a conquistare una buona fetta del mercato francese.
Nel 1985, invece, fu la volta della Germania. Il merito va a una responsabile commerciale che lavora tuttora con noi, Cristina Pennacchioni. Quando me la presentarono, ero un po’ perplesso: cosa avrebbe fatto una donna in mezzo a tanti “omaccioni” ceramisti? Il nostro non era un mestiere per donne. Invece, dovetti ricredermi molto presto: Cristina era molto preparata nella tecnica, aveva un’intelligenza e una memoria di ferro e aveva vissuto in Germania, quindi conosceva la lingua e la cultura tedesche alla perfezione. Da lì a poco, avvennero i primi incontri con un capo fabbrica tedesco, che pian piano incominciò a darci lavoro. Quando effettuammo la prima spedizione di stampi, però, ce li rimandò indietro tutti con un bel resoconto degli errori che aveva trovato, dopo averli smontati completamente per verificarne le misure. Allora, li riparammo in base agli errori che ci aveva contestato e glieli spedimmo di nuovo. Questa volta andarono bene. In due parole, grazie a questa esperienza, imparammo il metodo scientifico di lavoro che hanno i tedeschi, i quali, com’è risaputo, non sono grandi inventori, ma eccellenti esecutori; tant’è che la qualità dei prodotti tedeschi è stata sempre indiscutibile. Cristina, che è stata aiutata anche dal suo approccio nel fare le cose con la massima precisione, dopo il mercato tedesco, ha costruito la nostra rete commerciale in Olanda, in Belgio, in Polonia e in altri paesi d’Europa. È una persona molto preziosa per l’azienda: un matrimonio che dura dal 1985.
Allora, nella prossima intervista, proseguiamo il racconto a partire dal 1986…