L'ANORESSIA INTELLETTUALE. IL CANNIBALISMO DELL'EPOCA
“Cannibalismo”
ha un etimo che non risale a una radice latina, greca o a altre stratificazioni
linguistiche indoeuropee, ma al termine “canibales”, utilizzato da Cristoforo Colombo
per descrivere alcune tribù antropofaghe. I “canibi”, o “caribi”, abitavano le
terre poi chiamate “Caraibi”. Gli antropologi, oggi, distinguono fra
cannibalismo, che avrebbe alla base necessità sostanziali (la fame, le
carestie) o mentali (la psicotizzazione), e l’antropofagia praticata per motivi
rituali religiosi. Nei millenni, però, il carattere di sacrificio rituale ha
riguardato il mangiare la carne in ogni comunità, di qualsiasi religione o
regione della terra! La macelleria avveniva così: il capro espiatorio veniva immolato
e poi mangiato per assumere, e, quindi, estinguere, la negatività pericolosa per
la comunità.
Il
cannibalismo: mangiare il negativo, il male, per economizzarlo, gestirlo e renderlo
funzionale al sistema, per fare cerchio con il positivo, con il bene, e fare rientrare
nell’economia del sistema ciò che ha o potrebbe avere un influsso negativo sulla
famiglia, sulla persona, sul luogo, sulla città. In questa accezione, l’epoca
attuale è epoca cannibalica: il negativo, che in altri secoli ha trovato sbocco
anche in itinerari anomali (fonte di invenzione e arte per la città), è reso
spettacolare, conformista, canonico, puro.
Per
purificare il negativo – un tempo messo ai margini della città, nelle
“istituzioni differenziali” o nella “nave dei folli”, come monito di un luogo della
fine del tempo e delle cose – occorre renderlo standard. Le odierne parole
d’ordine (sostenibilità, multiculturalità, eulogia, politicamente corretto,
diritto al multigender, diritto all’eutanasia) servono oggi per globalizzare e
omogenizzare il pianeta, servono per l’utopia della sovranazionalità, cui i
governi nazionali, le istituzioni internazionali e i gestori dei media globali
si attengono. E questo coinvolge ciascun settore della società: l’istruzione,
la formazione, la ricerca scientifica, le procedure amministrative e
burocratiche per le imprese, le istituzioni finanziarie e bancarie, le istituzioni
giuridiche, l’alimentazione, l’immagine, la salute. E per applicare i
protocolli che le comunità locali e globali accettano sorgono i business del
purismo, del purismo finanziario, burocratico, politico, psicologico,
alimentare, medico, salutistico.
Ma la parola
originaria, impadroneggiabile, libera, arbitraria, leggera, integra, non si
lascia trattare e ricondurre a un sistema. Il cannibalismo è la reazione della
comunità convenzionale e conformista alla parola originaria, attraverso il
trattamento della correttezza, della purificazione, della finalizzazione della parola
al bene comune. Un bene comune già deciso per convenzione, per convenienza, per
rispondenza alla comprensione, alla circolazione, al canone, al conformismo
sociale.
Oggi il
conformismo sociale vale da modello per quel conformismo personale chiamato
soggettività, che è l’altro nome della sudditanza. Dire: “Il Tale ha una forte
soggettività” è come dire: “Il Tale ha una forte sudditanza”. Il soggetto è l’altro
nome del suddito. Anche il “soggetto di diritti” o il “soggetto di desideri”,
che sembra l’apoteosi del “soggetto libero”, libero di desiderare, di volere,
in realtà si adegua a diritti o a desideri già previsti nella correttezza psicologica
che la comunità “scientifica” accetta e condivide per convenzione e convenienza.
Così lo psicologismo eretto intorno al postulato del soggetto volente e
desiderante è l’altro nome della sudditanza.
I luoghi
dove si esercita la soggettività sono le comunità consolidate attraverso i legami
sociali previsti dalla psicologia della comunità, dalla naturale specularità negativa
(fatta di vendette, rivendicazioni, rivalità, gelosie), o dalla utopistica
specularità positiva (fatta di fratellanza e di uguaglianza). Anche la
sociologia pone l’istituto della vendetta (e gli istituti della colpa e della
pena, che ne discendono) alla base della nascita delle società e delle comunità
“primitive”. Lo psicologismo prevede tutto questo anche per la famiglia, la
scuola, l’ufficio, l’azienda e per i social media.
Una comunità
tenuta insieme da legami psicologici è comunità erotica: in essa circola la
negatività del pettegolezzo, ovvero della condivisione del “sapere sul fare
dell’Altro”, uno sharing dell’erotismo. Il pettegolezzo è un voyeurismo
“sessuale”, ovvero la negazione della sessualità. La sessualità è il passo del
tempo nel fare, la frontiera del tempo nel fare. È il flusso imprevedibile del
tempo a risultare intollerabile per chi sta a guardare cosa fa l’Altro.
Attraverso il pettegolezzo, il soggetto ha l’idea di trattare e giudicare
l’Altro, misurando e calcolando il flusso del tempo: idea di un “io giudice”.
Il
trattamento dell’Altro nega l’Altro, nega il tempo nel fare, lo toglie (idealmente,
fantasmaticamente): ecco, allora, il fantasma di fine del tempo, di fine del
fare con il tempo, di fine delle cose. Ma questo fantasma di fine, fantasma di
morte, è un’idealità, una padronanza che non riesce, perché le cose non
finiscono, non c’è morte della materia della parola, non c’è fine dei nomi,
delle immagini, dei pensieri, della voce.
L’idea di
morte è anche idea di origine: è l’idea che “ognuno” (“ogni uno”) ha di sé come
appartenente alla comunità degli umani. E il segno di questa appartenenza è
l’assoggettamento alla morte, alla fine del tempo, al ritorno all’origine.
Perciò, l’idea di sé si formula così: “ognuno muore”, raggiungendo la parità
sociale di fronte alla morte. È la “livella”, che l’ironia di Antonio de Curtis
(Totò) ha messo in versi, quando scrive: “Appartenimmo à morte”.
Nella
comunità di appartenenza, nel luogo comune degli umani, la morte funziona.
Perché funziona? Perché è minacciata, o comminata, rendendoci sudditi.
Prosperano le professioni e le confessioni che vivono di questa minaccia. E la
comunità resta unita come comunità di soggetti resi uguali dalla morte. L’idea
che ognuno ha di sé, garantendo l’unità dei soggetti alla morte nella comunità
umana, è anche idea sociale, idea unificante. Nell’unità, il cannibalismo è al
suo culmine: il negativo viene interamente assorbito e circola senza disturbare
il sistema.
Addirittura
c’è chi, oggi, auspica l’avvento di una “società circolare” come la vera novità
dei prossimi decenni. Come se non si trattasse di un’ideologia già millenaria!
La società circolare si forgia sul modello della gestione del ciclo dei
rifiuti: il rifiuto, il negativo, una volta selezionato, trattato, assorbito,
viene riimmesso nel circolo e reso economico. Questa è la società cannibalica.
Ma questa è anche la narrativa, lo storytelling, vincente dell’epoca. Non c’è
politico o funzionario o amministratore pubblico o di condominio, non c’è
giovane ricercatore o scienziato affermato che vi si opponga. Questo è, oggi,
il politicamente corretto, il socialmente corretto, quindi lo psicologicamente
corretto: assumere, assorbire, rimettere in circolo.
Nell’ottobre
del 2016, è stato insignito del premio Nobel per la medicina lo scienziato
giapponese che ha illustrato il processo di riciclo, all’interno della cellula
umana, dei materiali cellulari difettosi, rotti o alterati: è l’autofagia, o
autocannibalismo. La dimostrazione del meccanismo cannibalico in biologia (come
anche in genetica) è la giustificazione ultima, definitiva, perché nessuno
metta più in discussione la sua “naturalità”. Naturale e obbligato è il destino
circolare delle cellule, come naturale e obbligato è il destino circolare degli
umani, della società, della città!
Gli antichi
greci chiamavano Anánke il destino ineluttabile cui erano soggetti
uomini e dèi. Questo cannibalismo è psicoterapeutico perché – sostengono i
teorici della società circolare – “non c’è chi non sia d’accordo sulla
questione ecologica, sulla società sostenibile, sull’uso della tecnologia per
ridurre la solitudine dell’essere”. La necessità del riciclo, l’ineluttabilità
della società circolare, riduce la “solitudine dell’essere”! La società
circolare è benefica, è il trattamento psicoterapeutico per l’uomo nella sua “nuda
vita”, nella sua vita ridotta all’osso: mangiare, bere, riscaldarsi, il minimo
ciclo comune ultimo che definirebbe l’uomo. Per ciò, uomo circolare. E la
minima paura comune ultima, che la società circolare cura e calma, è la paura
della fame, della sete e del freddo, considerati il limite dell’essere,
sensazioni dell’abisso, del nulla. Sensazioni “forti”!
Ma va in
scacco la credenza nel destino ineluttabile di essere soggetti alla paura
prevista per tutti gli umani: morire di fame! Accade infatti che c’è chi, in
una parodia di Cristo, non soggiace alla fame di fronte al pane del demonio
(dando, così, dimostrazione di volontà, ovvero di anoressia sostanziale e mentale).
Eppure c’è chi non soggiace alla fame anche quando non c’è niente da mangiare
(anoressia insostanziale e immentale)!
Per il
trattamento della “solitudine dell’essere”, per far rientrare questa abissalità
nel sistema, la società circolare è organizzata con la condivisione, lo sharing
per la casa, per i mezzi di trasporto, per il lavoro, per i servizi
sociali. Negli hub (gli snodi) gli utenti condividono tempo e spazio e
tutto ciò che è psicologicamente condivisibile, cioè che fa parte della
coscienza (la coscienza: la comune scienza), quindi ciò che è convenzionale: i
sentimenti, le emozioni, la specularità dei rapporti positivi o negativi. In
questo co-working dell’anima, il negativo torna a circolare, torna
funzionale alla community.
Il
cannibalismo (la gestione, il trattamento del negativo) è psicoterapeutico perché
è mitologico. La psicoterapia ha fatto propria la soluzione data
dall’antropologia alla ricerca di una società “primordiale”, ovvero la schiera
selvaggia, l’orda primitiva, governata dall’istituto della vendetta, da cui
discendono l’istituto della colpa e l’istituto della pena. Senza questa
mitologia dei sentimenti di vendetta, di colpa e di pena come sentimenti
innati, archetipici, la psicoterapia non sta in piedi. Il postulato dell’orda
primitiva, con i suoi tre istituti, pretende di rendere gli avvenimenti e gli
eventi della vita soltanto prevedibili consequenze psicologiche. Infatti,
niente più della vendetta è un’azione comprensibilmente, universalmente, consequenziale.
La
consequenzialità è un’ideologia. Non c’è niente di consequenziale nella vita
originaria, nella parola originaria. Ciascun elemento della vita, della parola,
è adiacente, non è consequenziale. L’adiacenza è una virtù della vita che non
siamo allenati a cogliere, perché siamo abituati alla consequenzialità, ad
aspettarci una successione algebrica o geometrica degli eventi. L’adiacenza è
la vera via dell’integrazione.
Il testo di
Mariella Borraccino è tratto dalla sua conferenza L’anoressia intellettuale.
Il cannibalismo dell’epoca (Bologna, Centro Civico San Vitale, 1 dicembre
2016)