LO STRESS, LA SALUTE
Il titolo di questo
numero della rivista, “Lo stress, la salute” sembrerebbe indicare
un’alternativa tra i due termini, o addirittura un rapporto fra causa e
effetto: è ormai luogo comune credere che gran parte delle malattie,
soprattutto incurabili, dipendano dallo stress (in inglese tensione,
pressione), magari intenso o prolungato. Ma i testi qui pubblicati, che
prendono spunto dal congresso internazionale dell’Associazione di cifrematica
“Stress. la clinica della vita”(in cui sono state prese le interviste qui
riportate a Rasnick e a Lothane) e dal dibattito suscitato a Bologna e altrove
dal libro di Jillie Collings Il cuore senza chirurgia, (Spirali edizioni), indicano altre direzioni di
ricerca: per un verso la salute non è quantificabile in standard e statistiche
né può essere intesa come lo stare bene a tutti i costi, magari chirurgici e
farmacologici; per l’altro solo se riducibile al benessere e all’equilibrio, la
salute trova nello stress un antagonista, anziché una virtù perché sulla vita
non pesi più l’ipoteca della malattia. Sta qui l’interesse del libro della
Collings che, per le malattie cardiovascolari e dunque l’infarto, rileva i
limiti e, addirittura, i danni delle terapie farmacologiche e chirurgiche ma,
illustrando i meriti delle terapie chelanti (cfr. gli articoli di Pontiggia e
Zanella) e di un modo di vivere senza sostanze, non per questo cade in facili
mitologie del benessere a tutti i costi, dell’obbligo al relax e alla calma che
in particolare le malattie cardiovascolari richiederebbero. Non le sfugge che
il problema non è la tensione, ma la reazione a essa mangiando, fumando,
bevendo, agitandosi o rilassandosi, prendendo medicine per dormire o per
svegliarsi. E, come dichiara Verdiglione in questo numero, lo stress non è
patologico, lo è tutto ciò con cui noi reagiamo per opporci allo stress come
istanza intellettuale, all’instaurazione del tempo, dell’occorrenza, delle
esigenze di ciascun giorno.
Infarto viene da
farcire, ovvero riempire, ed ecco l’occlusione. C’è chi passa il suo tempo a
riempirsi la giornata di cose da fare per non fare nulla, a illudersi di fare
affacendandosi, a cibarsi di tutto per non nutrirsi, a riempirsi di sapere, di
ricordi, di indugi, di rimandi per non fare. Quando l’empasse si fa blocco,
quando l’ostacolo ostruisce abbiamo l’infarto come contraccolpo, come
impossibile negazione della tensione della parola. Lungi dalla psicosomatica,
la clinica cifrematica constata che vi è chi cerca di opporsi alla parola
tenendo un discorso, chiamato ossessivo, che indugia proprio nell’economia
contro questo tempo che interviene, nei rimedi e negli sforzi per evitare il
fare; discorso che cerca i limiti, li mantiene con i rituali, prova l’esorcismo
dell’oggetto, tenta l’eliminazione della differenza, fino a trovarsi nell’impossibilità
di giungere a concludere le cose. In quest’assenza di conclusione, magari
attribuita all’Altro, incappa nell’occlusione, arteriosa, o intestinale.
Eppure per la
cifrematica la stessa malattia è una spia, non un male, è una sottolineatura
che occorrono nuovi dispositivi di vita, di salute, d’impresa. Però molto
spesso chi si trova in un determinato discorso reagisce a questa malattia negli
stessi termini con cui vi è giunto. Cioè anziché cogliere l’occasione per una
trasformazione della vita, rispetto al modo di vivere, di cibarsi, di pensare,
di organizzare la giornata ecco che nella stessa cura riproduce i medesimi
termini economici, esorcistici, inconcludenti, senz’Altro.
Problemi di
circolazione? “Circolare!” è secondo Hegel l’imperativo sociale: per ogni stato
di polizia occorre una sola cosa, che tutto, bene o male, circoli, che tutto
vada e venga senza fare, senza scrittura, senza restituzione. La circolarità è
conciliazione degli opposti, loro equilibrio, benessere che deve economizzare il
malessere, realizzando l’armonia. Nessuna salute in questa mitologia salutista:
proprio i problemi di circolazione sono una sottolineatura che non è possibile
che le cose facciano cerchio, salvo girare in tondo, come chi cerca la
negatività e se ne nutre, ovvero insegue la propria coda e se la mangia.
La salute esige che le
cose si dicano, si facciano, concludano alla qualità, alla cifra. Senza la
conclusione emergono l’occlusione, l’inclusione, fino alla reclusione, finché
ciascuna cosa, la vita stessa diviene una prigione, da cui dover sempre
evadere. Ma la salute non è il benessere, è istanza di qualità: sta nel ritmo,
nei dispositivi, nell’impresa intellettuale di ciascuno; e la riuscita
dell’impresa (di cui parlano in questo numero Pini, Blondi e altri imprenditori
a proposito del brainworking) non consente evasioni, vie di fuga, alternative.
Non c’è più clusione: la stessa conclusione occorre divenga l’indice della
riuscita. Per questo la salute esige l’impresa, cioè occorre attenersi
all’occorrenza e all’urgenza, inventando dispositivi commerciali, di ricerca,
di vendita, finanziari, di scrittura. Lo stress non si oppone all’impresa, e
dunque alla salute, perché è la tensione intellettuale, la forza che attua una
tenuta delle cose e le rivolge alla qualità.