GLI UTILI DELL’IMPRESA SONO UTILI ALLA COMUNITÀ
Il
continuo aggiornamento tecnologico, integrato da ingenti investimenti in strutture,
macchine, impianti, magazzini automatizzati e uomini, unito alla ricerca costante
di prodotti e di fornitori, in particolare le acciaierie più qualificate a
livello mondiale, costituiscono gli elementi della riuscita di S.E.F.A.,
azienda leader nella commercializzazione di materiali per la costruzione di
stampi e utensili, acciai da costruzione e bonificati, acciai speciali Uddeholm
e altri materiali per la manutenzione meccanica. Negli ultimi anni il vostro Gruppo
ha valorizzato la quarantennale esperienza nel settore con l’apertura della divisione
S.E.F.A. Machining Center per la rifinitura di piastre pre-lavorate nelle dimensioni
richieste dal cliente con tempi di consegna paragonabili a quelli del materiale
grezzo. Anche la soddisfazione del cliente è un vantaggio che le aziende offrono
alla comunità...
L’impresa
costruisce ricchezza mentre svolge le sue funzioni e avvia le condizioni perché
ciascuno, guadagnando attraverso l’esercizio dei propri compiti, dia il proprio
contributo alla comunità. Il valore aggiunto dell’impresa è questo: formare
uomini e cittadini, insegnando un mestiere che trasforma chi lo svolge e la
città in cui opera. L’impresa, quindi, è essenziale per lo sviluppo del paese. Ma
finché le istituzioni intendono che l’apertura di nuove aziende è utile al massimo
a finanziare la burocrazia diffusa, continueremo ancora a ascoltare individui
che si lamentano senza produrre, pretendendo assistenza sociale a tutti i
livelli. Diversamente dalla comunità burocratica, la comunità pragmatica,
infatti, non assiste i cittadini e non limita chi ha l’esigenza d’intraprendere
nuovi progetti. Oggi lo stato favorisce condizioni di paradossi sociali
notevoli: per esempio, quando ammette le slot-machine nelle tabaccherie o
quando invita a tentare la fortuna con le lotterie – i cui introiti sono poi
rivolti alla sponsorizzazione di squadre calcistiche –, supportato dai media
nazionali, che fanno altrettanto nei programmi televisivi, e così favorisce la
ludopatia, salvo poi offrire la consulenza dallo psicologo pagato dalla mutua.
Questi problemi si manifestano quando manca la tensione verso la produttività,
quando l’uomo rinuncia al rischio di intraprendere un’attività che lo renda
protagonista nella comunità per quello che produce, trovando nel proprio lavoro
un’occasione per migliorarsi. La salute si conquista costruendo ciascun giorno il
proprio progetto, per l’esigenza individuale di riuscire e non per un dovere
sociale. Questa è la comunità pragmatica. Compito dell’impresa è produrre
utili, che diventano utili anche per la comunità nel momento in cui, per
esempio, l’imprenditore può investire nell’assunzione di nuovi collaboratori.
Ben altro contributo, questo, rispetto a quello di finanziare, per esempio, il
restauro di opere pubbliche, a cui i cittadini già contribuiscono attraverso il
gettito fiscale.
Occorre
avviare le condizioni perché le imprese possano investire in ricerca e in tecnologia…
In Austria,
l’impresa che incomincia l’attività versa allo stato il 25 per cento di tasse
in meno della corrispettiva azienda italiana, che deve pagare tasse per il 54
per cento. Siamo d’accordo che ciascun paese ha esigenze diverse, ma vogliamo
cominciare a pensare che, se le aziende non sono favorite nello sviluppo, il
paese non ha futuro?
L’uomo ha
l’esigenza di aumentare le sue risorse intellettuali e il suo lavoro materiale,
perciò scopo dell’imprenditore è dimostrare a se stesso che riesce nel suo
progetto, per esempio studiando, anche di notte, la tecnologia della nuova
macchina acquistata per realizzare quel particolare che gli ha commissionato il
giorno prima l’azienda cliente. Questa tensione alla qualificazione delle
proprie capacità ha contribuito a costruire un tessuto produttivo da cui, per
esempio, è nata la cosiddetta Motor Valley. La valle dei motori o quella del
packaging sono il frutto dell’impegno che tanti uomini hanno profuso nelle
aziende costituite poco dopo la conclusione degli studi tecnici nelle scuole
dell’epoca. Oggi, le botteghe di questa formazione sono proprio le imprese di
subfornitura. Basti pensare al caso di SEFA, che da quarant’anni investe nella
formazione dei suoi collaboratori, al punto tale che quindici dei quali,
finora, hanno messo a frutto quanto acquisito, costituendo nuove società, in
cui hanno assunto a loro volta altri collaboratori. Questa logica virtuosa
migliora tutto il tessuto cittadino.
Ci sono
ancora le condizioni perché l’impresa possa essere un punto di riferimento, se
è lasciata libera di produrre e non è ingabbiata in logiche burocratiche o in
ricatti sociali buonisti, perché senza impresa mancano anche gli elementi
costitutivi delle città. Basta guardarsi attorno per constatare che sono sempre
di più coloro che usufruiscono di risorse che non contribuiscono a produrre,
diventando sempre più scontata la pretesa di ciò che non è stato guadagnato
oppure è ottenuto con il minimo sforzo. Chi afferma che l’impresa deve dare sostentamento
ai poveri, dimentica che essa offre già ora in modo diretto il suo contributo,
anche tramite le tasse e il supporto alle strutture sociali che devono
provvedere a questo. E un contributo che trasforma le città e la cultura, non è
l’elemosina che appaga il bisogno contingente. Non è nostro compito dare
assistenza sociale, non è il nostro oggetto. L’oggetto dell’impresa è produrre
e accrescere la cultura dei propri collaboratori, offrire una formazione che
diventa anche culturale nella misura in cui insegna un mestiere, che potrà
essere trasmesso alle generazioni future e che consente di costruire famiglie
con figli che sapranno preservare il valore della costruzione della città.
Quanto vale questo contributo dell’impresa? Quanto vale il contributo di questa
rivista che diffonde il messaggio di questa comunità pragmatica?
Entrando
nello specifico del suo oggetto d’impresa, qual è l’apporto della siderurgia alla
comunità pragmatica?
Senza
siderurgia questo paese non avrebbe prodotto due milioni e mezzo di automobili,
soltanto nel periodo pre-crisi del 2007, sviluppando la tecnologia delle più
note case automobilistiche e non avrebbe potuto costruire infrastrutture come
per esempio l’Autostrada del Sole, perché l’acciaio era prodotto a chilometro
zero: da Brescia arrivava fino a Bologna, consentendo uno sviluppo tale per
cui, se prima occorrevano quattro giorni per andare da Bologna a Roma, ora sono
sufficienti poche ore.
Quello a cui
stiamo assistendo nella siderurgia degli ultimi anni, dal 2008 a oggi, è quasi
un accanimento terapeutico contro un settore che non merita questo trattamento
per ciò che ha dato e per quello che potrebbe ancora dare al paese. L’acquisto
di acciaio oggi costa di più alle imprese italiane, che lo devono reperire
all’estero, con aggravio di spese di trasporto, pagando una merce confezionata
con criteri e etica notevolmente diversi dai nostri. L’Italia importa oggi
quasi il 60 per cento di acciaio proveniente dalla Corea del Sud e da altri
paesi, come del resto avviene già in settori diversi come quello
agroalimentare, in cui, per esempio, tre prosciutti su quattro sono stranieri e
l’80 per cento di olio non è italiano. Il nostro è diventato un paese di
etichettatori: sembra siamo più bravi a etichettare che a produrre. Quando
avremo perso la cultura della produzione manifatturiera, cosa faremo? Diamo i
contributi a fondo perduto alle start up per la coltivazione per esempio della
lavanda? Ma in che termini questo investimento contribuisce a sostenere le
esigenze delle infrastrutture del paese, come per esempio scuole e ospedali? Se
dessero contributi anche alla distribuzione di prodotti siderurgici, costruirei
un’azienda rivoluzionaria, che a sua volta sosterrebbe i clienti che devono
investire in tecnologie nuove e collaboratori. Anche la formazione di questi
ultimi è fra le più costose d’Europa, e già ora è difficile da reperire a
Bologna, dal momento che i pochi studenti più bravi sono subito inseriti nelle
multinazionali, mentre gli altri se ne vanno all’estero perché c’è sempre il
rischio che la subfornitura non possa reggere la pressione fiscale e
burocratica, quindi non garantisce futuro nel lungo periodo. Anche questo è un
luogo comune: sono tanti gli imprenditori che hanno condotto una battaglia in
questi anni per consentire ai propri collaboratori di accrescere la loro
formazione, continuare a mandare i figli all’università e pagare il mutuo per
l’acquisto della casa, diventando cittadini modello.
Qual è la
vostra carta vincente?
Nel nostro
lavoro non possiamo robotizzare, né digitalizzare più di tanto, perché è ancora
essenziale l’intervento dell’uomo, nella fattispecie il venditore, che ascolta
le richieste delle aziende del territorio, incontra il cliente e ne anticipa le
occorrenze in prospettiva. Il dispositivo elettronico non riferisce queste
informazioni preziose nella misura in cui indicano in che direzione sta andando
il settore di competenza, perché rilascia algoritmi con un risultato che
esclude la domanda del tessuto produttivo locale. Il venditore, invece,
valorizza la domanda, trasformandola in un nuovo ordine, perché discerne fra
diverse esigenze.
Oggi, invece
di formare uomini che saranno apportatori di sviluppo e fautori di un
manifatturiero ancora più evoluto nei prossimi anni, rischiamo di preoccuparci
soltanto di riempire la busta paga senza alcuna prospettiva. Se i giovani
avessero l’opportunità di visitare le piccole e medie imprese senza pregiudizi,
imparerebbero che questo è il modo di concorrere alla comunità pragmatica e
l’impresa non sarebbe più intesa con un senso di fastidio, ma come protagonista
e sostenitrice della città, perché invece, quando è tenuta come ostaggio del
buonismo sociale, poi finisce che non funziona.