QUALE IMPRESA FAMILIARE? QUALE ESERCITO INVINCIBILE?
In che modo
l’arte e la cultura contribuiscono alla riuscita delle cosiddette imprese
familiari in Emilia e in Italia? Innanzitutto con la constatazione che
l’impresa non può mai essere familiare. L’impresa ha un’influenza enorme sulla
famiglia dell’imprenditore: è nella parola e nel racconto dell’imprenditore
lungo l’intera giornata. La famiglia non è estranea a questo racconto, non è schermata
dall’influenza di questa parola. La famiglia dell’imprenditore contribuisce
all’impresa, innanzitutto tramite l’apporto di ciascuno alle discussioni, anche
intorno al tavolo da pranzo. È essenziale che ci siano vari dispositivi di
parola: fra la moglie e l’imprenditore, fra l’imprenditore e i figli. Ma non
per questo l’impresa è familiare. Attribuire la familiarità all’impresa
comporta la naturalità e l’animalità sia della famiglia sia dell’impresa.
L’impresa familiare sarebbe l’impresa in cui le cose vanno da sé, senza
dispositivo, senza racconto, in modo naturale. Perché l’impresa sarebbe
familiare? Perché è di mio padre, quindi un giorno sarà mia e a breve di mio
nipote? Così, naturalmente, per linea di sangue? In modo mafioso. E la famiglia
invece cosa diverrebbe? Il luogo della spartizione di un’eredità sostanziale.
La famiglia
dà un apporto al racconto, ha la chance di qualificarsi come dispositivo di
parola, di invenzione e di crescita. Ma questo non va da sé. Per dare un
apporto deve qualificarsi non come famiglia naturale ma come famiglia
rinascimentale, famiglia nella parola, dove ciascuno interviene lungo il
proprio statuto intellettuale. La cultura impedisce che l’impresa sia
familiare. Ciascuno interviene lungo la propria esperienza, non in base a
rapporti sociali o a genealogie, non in quanto figlio di qualcun altro. La
famiglia rinascimentale e l’impresa sono distantissime da familiarismi e
personalismi. Un conto è parlare di “azienda a conduzione familiare”, cosa
diversa è invece ritenere che l’impresa sia familiare.
La
constatazione che l’impresa non è familiare mette in discussione il concetto di
passaggio generazionale. Se la famiglia e l’impresa sono costituite dal
racconto, allora occorre che ciascuno partecipi all’impresa, la racconti e la
inventi ben prima di divenire eventualmente imprenditore. Per il figlio
significa che non si tratta di prendere il posto del padre, né tanto meno di
differenziarsi facendo tutt’altra cosa. Si tratta di procedere dall’apertura,
per integrazione, di divenire a propria volta autore, inventore, narratore e
artista. Due autori non saranno mai in conflitto, non si porrà mai
l’alternativa tra loro, non si tratterà mai per l’uno di sostituire l’altro.
L’impresa si scrive, rilascia una testimonianza. Come si può ereditare un
racconto? Il figlio non eredita il racconto del padre. Per uno scrittore, per
un autore, come si può pensare che il figlio erediti il racconto del padre?
Cerchiamo i figli di Shakespeare, di Dante o di Cristo? Quale passaggio
generazionale quindi?
La
concettualizzazione del passaggio generazionale causa in Italia la rovina di
decine di migliaia di aziende. Il 16 ottobre 2009 “La Repubblica” ha pubblicato
un’inchiesta secondo la quale soltanto il 24 per cento delle aziende prosegue
oltre al proprio fondatore e soltanto il 14 per cento giunge alla terza
generazione. L’impresa è nella battaglia. Ma quale figlio ha intenzione di
combattere le battaglie dei propri genitori? La stessa indagine riporta che
soltanto il 21 per cento dei figli è disponibile a ereditare l’azienda di
famiglia e molti soltanto per mancanza di alternative. Soltanto con l’apporto
della cultura ciascuno diviene autore del proprio itinerario: non si tratta di
ereditare la battaglia dei genitori, e il debutto di una nuova generazione non
esime dalla battaglia la generazione precedente. Il figlio non ha da sostituire
il padre e il padre non ha da farsi da parte per lasciare spazio al figlio. Ciò
che occorre è lasciar fare, non lasciare spazio. L’impresa, così come la città,
è temporale, mai spaziale.
I consulenti
aziendali, interpellati per aiutare a gestire un presunto passaggio
generazionale, propongono al contrario la managerializzazione dell’azienda.
Puntano a normalizzare l’impresa, a rendere superfluo l’imprenditore tentando
di sostituirlo con un gruppo di manager. Puntano, cioè, a togliere la
particolarità, quella che per loro è un’anomalia instabile nel meccanismo
dell’azienda. E per gli imprenditori è facile farsi complici ritenendo che
l’impresa sarà davvero cresciuta, adulta, quando finalmente funzionerà anche
senza il loro contributo. Ma l’impresa non è una creatura, non è un figlio che
deve divenire indipendente dal genitore. L’impresa è intellettuale, è culturale,
si fonda sul racconto, sul sogno imprenditoriale e sul rischio d’impresa che
l’imprenditore assume. Nessuna impresa senza il racconto dell’imprenditore, nessuna
impresa senza il sogno imprenditoriale. Ci possono essere aziende,
eventualmente controllate da multinazionali o da fondi pensione, gruppi
finanziari, ma non è detto che siano imprese. L’impresa senza
imprenditore sarebbe l’industria automatica, naturale, circolare, che va da sé,
senza pulsione. Ma quando mai è accaduto? Leonardo Del Vecchio di Luxottica e
Bernardo Caprotti di Esselunga sono sempre stati fulcro dei dispositivi
aziendali, nonostante l’aumento delle dimensioni e il crescere degli anni. Lo
stesso è avvenuto e avviene per le più celebri imprese d’oltreoceano: Larry Page
di Google, Elon Musk di Tesla e Steve Jobs di Apple non hanno mai delegato la
direzione. Per i collaboratori e per i clienti, l’identificazione è provocata
dal racconto imprenditoriale, non certo dalle chiacchiere dei consulenti o dei
manager esterni che guardano la tempesta dalla sicurezza della riva.
Niccolò
Machiavelli insegna che l’esercito invincibile è l’esercito senza mercenari,
l’esercito che può contare sulle armi proprie. Ma come può un collaboratore non
essere mercenario? Quali sono le condizioni? Occorre che partecipi al racconto
dell’impresa, occorre che vi sia identificazione, progetto e programma. Un
collaboratore entusiasta del proprio lavoro, entusiasta di raccontare ciò che
si va facendo, sta già contribuendo al racconto dell’impresa. Sta già
contribuendo a inventare l’impresa, ne è già partecipe. Già così le aziende non
sono più tutte uguali (“purché paghino lo stipendio”), già così un’azienda non
vale l’altra e il collaboratore non si vende al miglior offerente. Non si vende
perché ha trovato un proprio itinerario, uno statuto intellettuale, non è più
mercenario. Non vive più aspettando ogni giorno le 17, ogni settimana il
week-end, ogni anno le ferie e, finalmente, la pensione. Un’impresa
caratterizzata da uno specifico statuto intellettuale non ha rivali perché la
particolarità impedisce che sia posta su un piano comune ad altri. È l’esercito
invincibile di cui parla Machiavelli.
Il testo è
tratto dall’intervento al convegno Come l’arte e la cultura trasformano la
famiglia, l’impresa e la città a Vignola (Rocca di Vignola, 9 aprile 2016).