LA QUANTITÀ INFINITA DEL CAPITALE INTELLETTUALE

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

A proposito del titolo di questo numero del giornale, La scrittura della quantità, in ventisei anni di attività, nei vostri laboratori avete controllato e analizzato milioni di componenti per le industrie dei settori meccanico, aeronautico, spaziale, biomedicale e dell’automotive. Componenti della cui rottura occorreva determinare la causa con precisione assoluta o di cui occorreva testare le caratteristiche resistenziali a fattori che incidono sulla loro durata negli impieghi più svariati. E, dal 2014, siete stati pionieri nel fornire alle aziende la tomografia dei loro prodotti, dando così un apporto non solo nei controlli qualità, ma anche in fase di progettazione, mettendole in condizione di verificare attentamente i loro particolari, assistendole nello sviluppo e aiutandole nella prototipazione.
La spinta all’innovazione costante dei vostri servizi ha comportato un aumento della quantità di commesse. Questa quantità si è scritta nel fatturato e può essere misurata e definita. Ma in che modo l’imprenditore si confronta con una quantità infinita nella sua scommessa di riuscita?
L’imprenditore si confronta quotidianamente con quantità definite, espresse da numeri ai quali vengono associate unità di misura. Così, se parliamo di economia, finanza, patrimonio, costi e ricavi, l’unità di misura è quella monetaria – euro, dollaro, sterlina e così via – e, per quanto grandi possano essere le quantità in gioco, si tratta sempre di quantità finite: tutto ciò che è esprimibile da un numero rappresenta una quantità finita, magari enorme, ma finita.
Certo, nell’azienda non abbiamo soltanto indicatori economici e finanziari ma, in definitiva, tutto il tangibile può essere ricondotto a quei valori. Le aziende si vendono, si acquistano, si fondono e a tutto è attribuito un valore definito.
Ma cosa è infinito, invece? Credo che questa caratteristica sia propria del capitale intellettuale. Qual è il limite di accrescimento del capitale intellettuale di una persona? Non credo che esista, il suo limite di accrescimento è segnato dalla durata della vita: finché viviamo, fino all’ultimo giorno, possiamo incrementare il nostro capitale intellettuale. Abbiamo la possibilità di farlo, possibilità che non sempre e non tutti sfruttiamo. A volte decidiamo coscientemente di non incrementarlo, ci accontentiamo, ci fermiamo, e allora sono guai. In un mondo, in una società in perenne evoluzione, fermare la propria crescita intellettuale porta all’isolamento, all’incapacità di comprendere, di partecipare, di divenire attori della trasformazione.
E per l’azienda è la stessa cosa. Se non si incrementano in modo costante tanto le competenze dirette quanto quelle trasversali, l’impresa finisce ai margini del mercato ed è destinata a soccombere.
Occorre quindi investire sul capitale umano, e anche sugli altri intangibili, altrimenti non c’è avvenire. Quante volte abbiamo sentito frasi come “si è sempre fatto così”, oppure “anche noi facciamo questo o quello”. Ecco due strade che portano alla distruzione di valore: fare sempre nello stesso modo e fare ciò che fanno gli altri. È la strada maestra per la marginalizzazione dell’azienda.
Tuttavia, non può giungere alla qualità chi non si pone la questione della quantità infinita, quindi del tempo che non finisce, come ha sottolineato lei stesso nella sua intervista L’azienda oltre i soci (“La città del secondo rinascimento”, n. 67): se un imprenditore si limita a svolgere un’attività che punta soltanto a garantire la propria sopravvivenza, nulla resta e nulla si trasmette né ai suoi clienti né ai suoi successori...
È vero. L’accrescimento del capitale intellettuale, di per sé potenzialmente infinito, un giorno finirà insieme alla nostra vita.
Fino a qualche tempo fa questo accadeva anche in ambito artigianale-imprenditoriale. Per esempio, il sogno di chi partiva con una piccola azienda poteva essere quello di produrre redditi tali da potere acquistare, nel tempo, il capannone dove aveva insediato l’attività. In questo modo, una volta raggiunta l’età della pensione, poteva affittare il capannone ad altri e integrare la pensione con gli introiti dell’affitto. Quante volte, in anni veramente passati, ho sentito questo ragionamento, questo programma. Era certamente un modo di pensare finito, che vedeva nel termine della propria vita il termine di ogni cosa. Non possiamo dire che tale visione mancasse di concretezza, anzi.
Tuttavia, chi mantiene il focus sull’impresa non aspetta la fine, cerca di immaginare come l’impresa continuerà a vivere dopo che egli avrà ceduto le redini al suo successore, che sia un figlio o qualcun altro – anche se per un genitore è motivo di orgoglio che il proseguimento sia assicurato dai figli –, l’importante è che l’impresa vada avanti, che la memoria non si cancelli, che continui a generare valore.
Quindi una quantità che giunge alla qualità, ovvero al valore assoluto...
Ecco un altro punto. Se la qualità dipende dal capitale intellettuale, che è infinito, essa stessa può essere infinita. Non ci sono limiti assoluti alla qualità. Ci sono i limiti che impone l’occorrenza. La quantità, oltre certi limiti, potrebbe divenire spreco di risorse, ma la qualità in teoria non conosce limiti, perché tutto è migliorabile. Ecco quindi che è infinita anche la possibilità di accrescere il nostro capitale intellettuale, di applicarlo alla qualità della vita, delle cose, dei dispositivi che instauriamo nell’azienda, con il proposito di renderli infiniti, non legati alla nostra esistenza. Apparentemente gli umani hanno un limite, una quantità finita di tempo. Se così fosse, perché non pensare di poterlo utilizzare per instaurare dispositivi di valore che vadano oltre la nostra vita?