MANGIARE, NON MANGIARE. L’ ANORESSIA, IL DILEMMA, I DISPOSITIVI DI VITA
Il termine
anoressia è costituito dal prefisso privativo a- e da un significante
dotto, oressia, che i medici utilizzavano nell’Ottocento per definire
l’appetito. Come si arriva all’appetito?
Il greco òrexis,
viene da orégo, “tendere”, “protendere”, “mirare”, “aspirare”. Per
una deriva metonimica, di cui testimonia la lingua greca anche in Omero, orégo
diviene “tendere e raggiungere”. E questo spostamento, per la sua natura
retorica, resta ancora una questione di oralità. Una deriva psicologistica, invece,
vale a dire conformista, la segnala Aristotele, in Etica nicomachea: “da
giudicanti, abbiamo un’aspirazione (oregòmetha) secondo la decisione”
(1113a 12), l’aspirazione segue a una decisione presa come giudicanti. Per
Aristotele questa aspirazione è una virtù “etica”, rispondente all’abitudine (êthos:
costume, abitudine, uso), ma i traduttori italiani rendono oregòmetha con
il termine “desiderio”! Dobbiamo all’ideologia medica ottocentesca se l’appetito
si è caricato del valore di un supposto meccanismo naturale del corpo. Dal
canto loro, gli psicologi e gli psicoanalisti del Novecento e del Duemila hanno
attribuito al desiderio il valore di un meccanismo naturale “psichico”,
facendolo diventare un valore naturale eterno, universale.
Il termine
appetito viene dal latino appetère, con una trasposizione del valore del
greco orégo, quindi “appetire” nel senso di “tendere a”, “pretendere”.
Mentre, il termine desiderio, in greco, è epithymía, da epi, “su”,
e thymós, il “timo”, il centro del petto, un luogo quindi, per la cultura
greca, il luogo del respiro e delle passioni. Epithymos è il “surrespiro”,
il respiro in più. Desiderio, in latino de-siderare, ha un altro
registro di scrittura.
Nel 1985
usciva un libro dello storico americano Rudolph Bell, La santa anoressia,
che ebbe una risonanza notevole. Il libro offriva ai lettori un’immediata
specularità attraverso la descrizione di una senti-mentalità del disagio
talmente convenzionale che era facile rappresentarsi in esso e ritrovare una
rassicurante appartenenza a una elite del negativo che includeva persino alcune
sante. E c’era già una pletora di psicologi, neuropsichiatri, psicosociologi,
psicogiornalisti, particolarmente interessata a occuparsi di questa elite.
Dando per
scontato che l’anoressia fosse una malattia e aderendo alla classificazione che
ne aveva fatto nel 1968 il sistema internazionale di classificazione delle
malattie, Rudolph Bell definiva “mentale” l’anoressia. I criteri convenzionali
internazionali per la procedura medica e psicologica di diagnosi dell’anoressia
“mentale” o “nervosa” applicano la comune algebra e geometria che serve a
contabilizzare e, idealmente, a governare la vita nella circolarità bene-male.
Nella psicoletteratura e nella psicosaggistica dell’anoressia, non c’è angolo,
lembo, orlo, digressione, divagazione, elemento del disagio della vita che,
sopra tutto per i giovani, sfugga a questa classificazione. Intorno al soggetto
anoressico, e alla sua famiglia divina o diabolica, si organizza una fantasia di
padronanza, ovvero una fantasia di fine.
La
diffusione del termine anoressia incomincia con un medico francese, Charles
Lasègue, che aveva descritto, nel 1870, un’anoressia che definì isterica. Negli
stessi anni, a Londra, un altro medico, William Gull, descriveva per un suo
paziente un’anoressia “nervosa”. Dopo Lasègue e Gull, si è interessato di anoressia,
fra gli altri, anche Jean-Martin Charcot. Poi arriva Sigmund Freud, coinvolto
dal medico Joseph Breuer nel caso di una sua paziente, Anna O., che aveva avuto
un episodio di anoressia. Freud seguì invece da solo la signorina Emmy von N., un
caso di purismo rispetto al cibo. Notissimo, poi, il racconto freudiano dell’Uomo
dei lupi (1914), un caso di inappetenza in un bambino (e in quanti bambini
non c’è un episodio di inappetenza!). Freud scrive che il bambino aveva “paura
di essere divorato dal lupo. Siamo stati portati a interpretare questa paura
come paura di essere posseduti carnalmente dal padre. […] avevo detto di sospettare
che […]. Con il suo singolare comportamento durante la traslazione, il paziente
non fece se non confermare questo sospetto […]. All’ipotesi che il bambino
abbia osservato un coito […] non possiamo rinunciare; né possiamo fare a meno di
supporre […]. Io stesso amerei sapere se la scena primaria, nel caso del mio
paziente, sia stata una realtà o solo una sua fantasia; ma si deve convenire,
tenuto conto di altri casi analoghi, che la cosa non riveste una grande
importanza”. In questo caso clinico che è una novella, notiamo il modo
linguistico con cui Freud avanza il suo sospetto personale, vale a dire il suo
canone, su come sarebbero andate le cose. Nessuna parata della padronanza da
parte di Freud, nessun avallo a fare delle sue ipotesi sulle fasi (orale,
anale, fallica) delle formule di significazione e di standardizzazione della
vita. A proposito delle fasi freudiane sono state scritte biblioteche intere
dai contemporanei e dagli epigoni di Freud, che ne hanno persino cercato la
conferma organica. Invece la fase orale è l’applicazione di un postulato dell’ontologia:
il principio di non contraddizione; mentre la fase anale risalta come applicazione
del principio d’identità; e la fase fallica del principio del terzo escluso.
Questi tre principi della padronanza sulla parola dovrebbero arginare il
disagio. E così noi incominciamo a intendere di che cosa si tratti
nell’anoressia, dove è questione non di fasi orale, anale, fallica, ovvero
della padronanza, del purismo applicato alla vita, ma dell’oralità, ovvero
della parola che sfugge alla conoscenza, al ritorno all’origine e all’idealità per
seguire il va e vieni, le pieghe e le onde della vita, per seguire le virtù del
principio: anzitutto l’anoressia, virtù linguistica, virtù del principio della
parola.
A metà
aprile scorso, sui media internazionali è uscita la notizia che Laurence, la
figlia maggiore di Jacques Chirac, uno dei più noti e longevi politici
francesi, è morta a 58 anni “vinta dall’anoressia”, ma era scomparsa da decenni
dalla visibilità pubblica del padre. I giornali scrivono: Jacques Chirac, una
vita trascorsa nel fragore del mondo. Primo ministro 1974-1976; sindaco di
Parigi 1977-1995; presidente della repubblica 1995-2007. Ma il pettegolezzo parigino
annota, a fianco della serie di cariche politiche, una altrettanto ininterrotta
serie di relazioni extraconiugali. Il pettegolezzo diviene anche
internazionale. Ma tutto rientra nell’accettabile reputazione di un monarca di
Francia, da cui i sudditi si aspettano una parata erotica, falloforica, da
invidiare. Anche la moglie di Chirac, Bernadette, ha seguito una carriera
politica ininterrotta. Nessun commento sui tradimenti del marito. Quasi
facessero parte obbligata della sua carica istituzionale. I giornali
riferiscono che Claude, la seconda figlia di Chirac, ha partecipato pienamente
all’esposizione pubblica dei suoi genitori. Sempre a fianco del padre,
brillante, lascia interviste al suo posto.
Ancora i
giornali scrivono: “Dietro la facciata pubblica di casa Chirac, vi erano
segreti”. La presidenza della repubblica francese si rappresenta come un
animale fantastico: nella stessa persona circola la rappresentazione del senso
di uno stato che poggia sui principi del terrore del 1789 e la rappresentazione
degli interessi dei gruppi di potere nei settori economici principali, sopra
tutto delle fonti energetiche e dell’industria militare, che sono protetti
dalle istituzioni statali e che quindi possono permettersi tutto, anche
all’estero. Nella rappresentazione del senso dello stato sta la faccia del
sacrificio, nella rappresentazione degli interessi nazionali sta un godimento
da nascondere. La forza del sacrificio fa cerchio con l’umana rappresentazione
del godimento.
Nella patria
dell’illuminismo, nella patria dei lumi, Laurance ha assunto il compito di
purificare la famiglia, di gestire l’ombra che la famiglia sembrava avere
annullato per vivere sotto i riflettori, ha assunto il compito di cancellare la
memoria mediatica del pettegolezzo, cancellandosi, ovvero ha assunto il compito
di fare per sé e per altri, di pensare per sé e per altri. Claude, sorella
minore, partecipa all’esposizione mediatica di padre e madre, contribuisce alla
rappresentazione mediatica della politica nel litigio, nella polemica, quindi
senza sessualità. La sorella maggiore deve purificare questa rappresentazione
sacrificando il corpo e mortificando la scena. Per entrambe, l’idea agisce.
Nella patria
della libertà soggettiva (“io penso, dunque sono”), l’anoressia mentale si
formula proprio così: “io penso”, vale a dire “se penso vuol dire che posso
pensare, so pensare, voglio pensare, addirittura devo pensare”, quindi “io
posso, io voglio, io so, io devo” poggia su questa soggettività dell’”io penso”.
L’anoressia intellettuale è la non accettazione intellettuale del
discorso come causa finale (“se io penso così, le cose sono così, le cose
stanno così”, il mio discorso, ciò che dico, ciò che penso, causa le cose).
L’anoressia intellettuale si formula, per esempio, con i teoremi “non penso
più”, “non spero più”, “non faccio più”, “non mangio più”. Questo comporta
mettersi in discussione: che è il preliminare dell’analisi, ciò senza cui non può
avviarsi un’analisi.
Il discorso
come causa finale, il discorso che causa le cose, è il discorso della morte:
“io penso le cose e quindi le cose sono queste” è come dire “penso le cose, e
le cose hanno questo destino di essere”, non possono avere un altro destino,
“se le penso così, sono così, hanno questa fine, mi viene questo pensiero,
posso formularlo, quindi sono libera di formularlo e lo formulo”: ecco che le cose
sono fatte. Questo è il pensiero creativo, il pensiero che crea le cose. Questo
è il teomorfismo umano: l’uomo creatore, l’uomo dio.
Anche il
testo del Genesi non è esente da questa anoressia mentale, dal postulato
del pensiero creativo, negli scritti intorno alla “creazione” a noi pervenuti,
che fanno parte del dossier occidentale e del dossier orientale. Nel Genesi 1,
1-2, secondo la versione del redattore biblico “elohista” (che chiama Dio con
il nome plurale Elohim): “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la
terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso… Dio disse: ‘Sia la
luce’. E la luce fu. Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre”.
Il commentatore della Bibbia, uscita con l’imprimatur della Conferenza
episcopale italiana, scrive: la luce è la creazione di Dio, le tenebre non lo
sono, esse sono negativo. “Il pensiero della luce, posso formularlo e lo
formulo. Ecco che le cose sono fatte: la luce fu!”. E le tenebre sono il
negativo. Nella nostra lettura, interviene una sospensione dell’anoressia
mentale nel Genesi 2, 4b, secondo la versione del redattore biblico “jahwista”
(che chiama Dio con il nome Jahweh). Qui viene sospeso il terzo principio del
logos, il principio del terzo escluso. Infatti il verbo usato è “fece” (che in
ebraico è da intendersi nel senso di costruire per mezzo di strumenti), quindi c’è
un terzo incluso, uno strumento: “Allora quando fece Jahweh Elohim (Signore
Dio) terra e cielo”.
Non è il Dio biblico a essere antropomorfo: l’anoressia
mentale (la padronanza ideale) se riuscisse, se togliesse completamente il
lapsus, l’equivoco, il malinteso, non sopporterebbe il Dio biblico, che si
lascia prendere la mano dall’amore per l’uomo e lo ama e lo odia, è geloso (Deuteronomio)
lo perdona e lo castiga, gli lascia acquistare le indulgenze, guadagnare il
paradiso. Troppo antropomorfo! L’anoressia mentale è teomorfa come lo stesso
Dio biblico non è! Perché lo stesso Dio non è libero di morire (come testimonia
la traversata testuale dei Vangeli). L’anoressia mentale fa la parata di questa
libertà di morire. Laurence, quindi, anziché essere “vinta dall’anoressia” e
essere assoggettata, è padronissima: un pasto d’odio, il banchetto della
politica accettato da Claude, l’altra faccia del pasto d’odio quello di
Laurence.