LA SCUOLA E L’ABUSO DI SOSTANZE
Che cosa è
la sostanza? “Che cos’è?”, τι ἐστί?, dicevano i greci. Quando una simile
domanda, “che cos’è?”, viene formulata, ci accorgiamo che è presa in un’idea di
sostanza come riferimento, cioè un’idea di qualcosa che possa essere racchiusa
in una definizione, che possa essere rappresentata in un’entità cui attribuire
funzioni, effetti, proprietà, a prescindere dal viaggio in corso per questa
cosa.
Che cos’è?
Se per un verso la questione incomincia da qui, dal “Che cos’è?”, per l’altro
essa prosegue solamente se a questo τι ἐστί? non viene risposto: “Ecco, è
questo”, ma è lasciato un varco in cui possa prodursi Altro. In che modo? Per
via di ricerca, per via d’impresa, per via di rischio, per via di parola. Senza
nessuna verità a priori.
Postulare la
verità prima della parola, come avviene in ogni apparato, implica postulare il
suddito della verità, che è anche suddito di chi si propone padrone o gestore o
somministratore di questa verità. A questo segue la prescrizione di condividere
questa verità.
L’idea di
condivisione è un’idea di costituzione del suddito. “Condividiamo!”, cioè
apparteniamo alla stessa verità, ossia, siamo sudditi di questa verità. Per
questo occorre che parliamo la stessa lingua, che pensiamo le stesse cose, che
facciamo le stesse cose, che mangiamo le stesse cose, pena l’esclusione dal
gruppo, dall’insieme, dalla classe. Questo non è il modo della cultura,
dell’arte e dell’invenzione, ma il modo dell’intolleranza, della prescrizione,
dell’uniformità, dunque della sostanza.
Anche
l’integrazione sempre più spesso è intesa come condivisione, come accettazione
di norme, regole, tradizioni, usi e costumi del territorio: è l’integrazione
come adeguamento all’esistente. Ma, la parola è caratterizzata dalla procedura
per integrazione e non si adegua all’esistente, perché non esiste nulla prima
della parola. Prima del suo atto, non c’è esistente. E nemmeno dopo, perché ciò
che si enuncia, ciò che si dice, ciò che si fa non è rappresentabile in un
esistente stabile, a meno di non abolire differenze e variazioni per istituire
un terreno, un tessuto stabile, immune dalla parola. Immune, quindi, anche
dall’intellettualità, dalla proprietà intellettuale della parola.
L’adeguamento
all’esistente è la negazione della realtà intellettuale, non il contrario.
Dunque, la procedura è per integrazione in quanto non è sottoposta alla
prescrizione dell’accettazione dell’esistente. La realtà intellettuale è
incompatibile con ogni soggettività, con ogni stabilità, con ogni presunzione
di essere o di avere in pianta stabile proprietà, requisiti, virtù e
quant’altro.
Come pensare
che questo modo, che è il modo della vita, possa essere accolto, ammesso,
tollerato da quel discorso che si autodefinisce scientifico sulla base
dell’assunto che poggia sulla sperimentazione? Quel discorso che si chiama
scientifico, in realtà, si attua come discorso sperimentale, cioè discorso che
ha come suo miraggio la ripetibilità degli atti. Nessuna novità, nessuna
differenza, nessuna variazione, ma la ripetibilità dell’atto, “postulate le
stesse condizioni”, per poter arrivare a prevedere l’atto. Prevedere, ripetere,
gestire, incanalare, padroneggiare. Questo discorso sperimentale è il discorso
organicista, è il discorso che si contrappone alla parola. Non c’è possibilità
di compatibilità tra la parola e questo discorso che è, quindi, sostanzialista,
organicista e sperimentalista. Questo è il crinale: o la parola o questa
procedura sperimentale.
Spetta alla
sostanza, ciò che sta sotto le cose, garantire che siano le stesse, che si
ripetano identiche. La parola esige che ci sia analisi, in ciascun atto in cui
qualcosa interviene, per capire qual è il suo statuto, per cogliere le
indicazioni che vengono dal calcolo, dal ragionamento, dall’intervento di
variazione, differenza, combinazione, combinatoria. L’organicismo non ha
bisogno dell’analisi, propone la verità postulata, la sostanzialità e la
gestibilità delle cose. Rispetto a ciò che “non funziona” o “non va”, rispetto
a una discrepanza tra sensazione e percezione, rispetto a un fastidio, a un
problema, propone di ricorrere alla sostanza per evitare quel fastidio o anche
per favorire il conseguimento di un obiettivo, di un risultato. Questo metodo è
indicato anche dall’apparato medico, e non solo. Oggi, l’apparato medico è
quasi piccola cosa rispetto a ciò che sta attorno a esso, che è l’apparato
pubblicitario, che sostiene il business
della sostanza. Un problema d’insonnia? Ecco una sostanza che favorisce il
sonno. Un problema di sonnolenza? Ecco una sostanza, invece, che favorisce il
risveglio. Un problema d’incontinenza? Ecco una sostanza che favorisce il contenimento.
Un problema di eccessivo contenimento? Ecco una sostanza che sicuramente
favorisce il rilasciamento. Ci sono tanti problemi, ma per ogni problema ecco
una sostanza che può consentire la soluzione. Quindi, l’idea di soluzione è già
idea di sostanza. Rispetto a un problema, a un sintomo, a un fastidio, non è
più necessario indagare come e perché quel fastidio sia sorto e se per caso non
sia mantenuto e, anzi, incentivato dal modo di vivere, dalle abitudini con cui
Tizio, Caio e Sempronio vivono. E occorre tenere conto che questa sostanza –
che, se è assunta con i favori dell’apparato, si chiama farmaco o psicofarmaco,
altrimenti si chiama droga – è per sempre. Pochi sanno che un’altissima
percentuale degli psicofarmaci somministrati a lungo, è inutile, ma anche se lo
sapessero non cambierebbero abitudine, perché chi per esempio “soffre d’ansia”
– l’ansia viene considerata una sofferenza, non un sintomo – ha il suo ristoro
nell’assunzione di ansiolitici: ansia/ ansiolitico, è una coppietta fatta per
durare, lo dice la parola stessa. Gli abituè
di questi accoppiamenti prendono per svariati mesi e per lo più per anni la
loro dose di sostanza, non perché avvertano che c’è un effetto di articolazione
del problema noto, ma perché dicono “non vorrei mai che smettendo… le cose
peggiorassero”. Essi non sono nemmeno informati che l’efficacia di un
ansiolitico, alludo per esempio alle benzodiazepine, è per tempi brevi, al
massimo qualche mese, dopodiché non funziona più, per un effetto chimico di
assuefazione che toglie le proprietà “terapeutiche” per cui è assunto. Per
questo motivo negli Stati Uniti è stata emanata una legge per cui un medico che
somministri per più di sei/otto settimane una benzodiazepina viene interrogato
dalla Food and Drug Administration, l’ente
governativo di competenza, sui motivi della prescrizione prolungata, dato che è
stato riscontrato che questo non giova. Questo in Italia non avviene. Chi,
andando dal medico, viene informato che è indispensabile limitare l’uso di
certi farmaci – inefficaci se non dannosi dopo un certo tempo – e che occorre
attuare un processo di ricerca per capire la natura dei sintomi e svolgere le
questioni che ci sono, anziché eluderle con il farmaco?
La credenza
nella proprietà taumaturgica della sostanza è accettata, accolta, condivisa
anche dall’apparato scolastico. Non è messa in questione. Oggi, per esempio,
nella scuola, il problema dell’assunzione di ansiolitici è ingente: è un
riscontro attuale. Forse che, a questo proposito, sorgono allora dispositivi di
ricerca, d’indagine, di messa in questione da parte d’insegnanti, dirigenti,
docenti, studenti e genitori intorno a questo problema? Ci si limita a prendere
nota, statisticamente, che il numero di attacchi di panico è aumentato. Così,
per esempio, una fantasia dell’avvenire negato – in quello che viene chiamato
attacco di panico si tratta di una fantasia di negazione dell’avvenire, una
fantasia di fine del tempo, che si rappresenta in modo differente e vario per
ciascuno, e che in ciascun caso è da indagare – è invece uniformato per tutti
nella categoria patologizzante dell’attacco di panico, termine che indica
solamente che in una certa circostanza c’è l’intervento della paura. E invece
di indicare la necessità di capire i perché, oggi è tradotto in malattia. E la
questione è chiusa.
Allora, non
si tratta di essere favorevole o contrario all’uso della droga o di sostanze,
non è una questione di permesso o di negazione del permesso: occorre mettere in
questione la superstizione della sostanza e quindi la superstizione di sé come
soggetti. Sempre più vige la credenza di essere qualcosa o qualcuno
prescindendo dalla domanda, prescindendo dalla pulsione, prescindendo
dall’istanza di salute, prescindendo dal progetto di vita e dal programma di
vita.
Progetto e
programma si avvalgono della dissipazione di questa superstizione soggettiva,
si avvalgono della dissipazione dell’idea di fine. Ognuno è soggetto in quanto
sottosta all’idea di fine, sottostà al presunto destino comune. La domanda non
si soddisfa con la sostanza, ma attraverso il compimento, la conclusione di ciò
che è intrapreso, sia per quanto attiene alla ricerca, sia per quanto attiene
al fare. La domanda, con le sue vicissitudini, non può mai essere abolita.
L’idea di
soluzione è questa: abolire la domanda, fare come se la domanda non ci fosse.
All’abolizione della domanda segue l’assunzione della sostanza, che è
assunzione della fine: tolta la domanda, quale corso, quale rivolgimento, quale
indagine, quale ricerca, quale analisi? Tolta la domanda, nulla resta.
La scommessa
della scuola è questa: non istituirsi più come apparato che inserisce i giovani
nel tessuto sociale esistente, ma divenire dispositivo intellettuale per
l’istituzione della realtà intellettuale, quindi per l’accoglimento della
novità, del nuovo, per l’instaurazione dell’ascolto di ciò che si dice, di
quello che si fa, in termini non convenzionali.