ALIBI

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

“Me ne vado, la mia vita è altrove”. “Ero stanco dell’Italia, ora me ne sto altrove”. Andare altrove, starsene altrove. Traslocare, addirittura delocalizzare. “Qui in Italia non si può più lavorare, occorre andare altrove, delocalizzare la produzione”. Chi trasloca, chi delocalizza: si tratta sempre di luogo, questo luogo, un altro luogo, il luogo presente, il luogo che conosco già. La delocalizzazione, volgendo una questione di struttura e di direzione d’impresa in problema di luogo, presunto svantaggioso, mantiene l’ideologia del localismo, con l’idea di alternativa, e manca l’internazionalismo, indispensabile per l’impresa.
Ma dove stare, dove andare? In latino, “dove” è ubi. Parlando, il dove non è il luogo. “Dove stai?” non indica un luogo, “dove” è un punto: “Da dove vengono le cose?”. Ma “dove” è anche un contrappunto: “Dove vanno?”. Questo dove, questo punto e contrappunto, che insiste nel racconto, è illocalizzabile, è condizione di un itinerario narrativo, non spaziale. L’itinerario di ciascuno, dell’impresa, della famiglia, è narrativo, si intesse nel racconto. Raccontando, il dove non fissa un luogo, magari d’origine, ma indica l’assenza di luogo nella parola, la non presentificazione del punto e della struttura. La scontentezza, e persino il lamento, enunciano l’istanza del dove e dell’altrove, non sono la prova di un bisogno di fuga o di abbandono.
“Adamo, dove stai?”. Se Adamo risponde: “Sono altrove”, crede nell’alternativa, è pronto per il precipizio, per la caduta. Una caduta senza punto, una caduta perché il paradiso, il giardino, in cui le cose si fanno secondo l’occorrenza, venga negato, divenga terrestre. Il paradiso non è terrestre, ma occorre l’idea di caduta perché possa diventarlo. E, con la caduta, anche la terra diventa terrestre, una terra senza cielo, una terra in cui cadere che, come diceva Platone, diventa prigione. Ciascuna cosa diventa prigione, tolta l’occorrenza e senza più avvenire. Quando il dove risulta prigione, ognuno vuole andare altrove, cerca l’evasione.
Se il dove non è un luogo, anche l’altro dove, l’altrove, non è un altro luogo, un luogo alternativo, non è spaziale. La struttura della parola, ma anche la struttura di ciascun dispositivo esigono l’altrove, in latino alibi (da alter ubi), che non ha da essere rappresentato, altrimenti diventa alibi sociale, quello per cui ognuno va altrove, va di qua, va di là, va dove gli pare e dove gli piace, evade, si diverte, si avverte, si converte.
Alibi. Quando noi crediamo di essere nel posto giusto o in quello sbagliato, nell’unico luogo possibile o nel luogo in cui non vorremmo essere, togliamo, idealmente, l’alibi, l’altrove, e allora le cose non si scrivono, ci restano appiccicate, ci invischiano, ci sommergono. L’altrove nella parola è quel che consente che le cose che incontriamo nell’itinerario si scrivano. Senza l’altrove, la struttura del labirinto, in cui si stabilisce la ricerca, non si scrive, e allora, come il Minotauro, siamo invischiati in un labirinto prigione, che ci intrappola. Senza l’altrove, la struttura del paradiso, in cui dimora il fare, non si scrive, e allora, come Adamo, siamo rinchiusi nel paradiso terrestre, da cui evadere.
Dicendo, facendo, narrando, l’altrove del labirinto, che impedisce che la ricerca giri in tondo, è l’economia, oltre la ricerca. L’altrove del paradiso, del fare che impedisce che l’impresa finisca, è la finanza, oltre il fare. Con questi due alibi, la ricerca e il fare, procedendo dall’apertura, si scrivono, l’itinerario si scrive, risultando narrativo, non reale o ideale. Per questo con l’economia e la finanza, che non sono luoghi né fatti perché non prescindono dalla narrazione, nessuno ha alibi da accampare, dunque non ha bisogno di andare altrove, né di un’alternativa. Senza gli alibi della parola, quindi l’economia e la finanza narrative, abbiamo la rovina o il fallimento dinanzi e allora pensiamo che occorra scappare, pensiamo che tutto crolli o vada in mille pezzi, esploda o imploda.
L’esperienza esige che ciascuno non rappresenti l’altrove, prima di tutto nell’interno o nell’esterno, per cui ci sarebbe chi è dentro e chi è fuori, chi è avanti e chi è indietro. Se l’esperienza procede dall’apertura, non c’è modo di localizzare il dentro e il fuori: ciascuno è interlocutore, ciascuno ha la chance di divenire caso di qualità. Qui e ora, hic et nunc, la struttura dell’atto di parola, non il presente.
I due alibi impediscono che ci perdiamo e che ci abbandoniamo, che smarriamo la bussola o che andiamo fuori rotta. La cifrematica, la scienza della parola, indica che la direzione richiede la bussola della vita, l’istanza della qualità. Qualità intellettuale, che poggia sul cervello come dispositivo di direzione e di regia, non sugli standard e sulla condivisione. La condivisione esige una realtà che si fondi sull’idea di sostanza, non la realtà intellettuale – come nota in questo numero Ruggero Chinaglia – in cui ci imbattiamo con l’analisi, la narrazione, la lettura. L’istanza della qualità intellettuale, della qualità della vita, non abbisogna che la salute di ciascuno, ma anche dell’impresa, dipenda dalle sostanze: l’istanza della qualità, la bussola della vita è la salute stessa, istanza con cui la vita diviene valore assoluto, non si limita all’idea di bene e di benessere. Perdere la bussola rincorrendo il benessere, costruendosi alibi per evitare il disagio, il lutto, il dolore, comporta smarrire la direzione, ma anche perdere la salute. L’immunità non si riduce al sistema immunitario, esige la narrazione che dissipa i ruoli sociali, le coppie dell’intersoggettività, come possiamo leggere nell’articolo di Antonella Silvestrini. La salute non è un diritto né una condizione, è istanza di qualità della vita, quando il racconto, poggiando sull’immunità, giunge alla comunicazione e l’itinerario approda alla sua cifra.