NON C'È ALTERNATIVA ALLA RIUSCITA
Tra le sue varie definizioni, il novecento potrebbe annoverare anche questa: è il secolo delle riviste e dei manifesti culturali e artistici. Dalla “Voce” alla “Lacerba”, da “Critica sociale” a “Nuovi argomenti” fino a “Aut aut”, attorno alle riviste sorgevano movimenti, collettivi e correnti che, pur mantenendo alcuni compromessi con le ideologie, lanciavano idee, messaggi, proposte. Ma ora, con il venir meno delle utopie ideologiche e delle avanguardie culturali, dopo la fine del secolo, anche il tempo delle riviste, e con esso il tempo dei dibattiti e della ricerca culturale, può dirsi concluso?
In questo primo decennio del nuovo secolo, forse mai come ora, c’è l’esigenza di un orientamento intellettuale, di idee non convenzionali, di proposte nuove. Sulla scia delle riviste “Spirali. Giornale internazionale di cultura”, pubblicata dal 1978 al 1986, e “La cifra. Pensiero, scrittura, proposte”, edita da Spirali dal 1988 al 1990, la collana rivista “La cifrematica”, giunta al quinto numero, intitolato La nostra psicanalisi – presentato a Bologna con gli interventi di Antonella Silvestrini e di Ruggero Chinaglia, pubblicati in questo numero – ha convocato intellettuali come Marek Halter e Alain Finkielkraut, logici come Jacques Riguet e Matjaz Potrc, scrittori come Francesco Saba Sardi e Cristina Frua de Angeli, poeti come Aldo Gerbino e Gregorio Scalise, psichiatri come Thomas Szasz e Uwe Peters, medici come Giancarlo Comeri e Georges Mathé, per attraversare le questioni nodali del nostro tempo, attenendosi non a schieramenti ideologici, ma alla ricerca, al fare, alla scrittura e alla sua punta, la lettura. Questione di dissidenza intellettuale, non di rifondazione del sapere o della conoscenza.
Con la cifrematica, che è scienza, procedura e esperienza della parola, sorta negli anni settanta, proprio mentre venivano ridotte a discipline e a professioni la psicanalisi, la linguistica, l’antropologia, la scienza, con la cifrematica non importa più l’analisi o la critica di discorsi, ma stabilire i termini e i modi dell’instaurazione della parola originaria: un’altra logica delle relazioni, delle idee, dell’oggetto, delle funzioni, delle dimensioni della nostra vita risulta essenziale per ciascuno. Nessun elemento nella parola è inintellettuale, inanalizzabile, indiscutibile, ciascuna cosa può trovare un modo e una via nella parola. Perciò la chance offerta dalla cifrematica è questa: ciascuna cosa che ci troviamo a cercare e a fare, in ciascun settore, in ciascun ambito, in ciascun ambiente, appartiene interamente al viaggio intellettuale, al processo di qualificazione.
La stessa psicanalisi, sul finire degli anni settanta, era suddita della psichiatria e della psicologia. Oggi sembra travolta dal dilagare delle psicoterapie, dalle terapie sistemiche alle terapie cognitivo-comportamentali, passando per l’analisi transizionale e la programmazione neurolinguistica. Con la cifrematica, la psicanalisi risulta esperienza della parola originaria, distante dal concetto di malattia mentale e dal ricorso agli psicofarmaci: avanza una cultura come formazione dell’inconscio, non come disciplina, una terapia come articolazione e svolgimento delle questioni nella parola, in direzione della salute come istanza di qualità della vita, non viatico della sopravvivenza quotidiana.
Si spalanca l’abisso? Ci sembra di trovarci in un diluvio? Tutto è vorticoso? Oppure niente si muove, è tutto fermo, o gira in tondo? Il disagio non è un disturbo mentale o sociale. Con il disagio, le cose entrano nella parola, il disagio è l’introduzione stessa delle cose nella parola, non ciò che avvia un cammino di purificazione. La cifrematica, infatti, è la rivoluzione con cui le cose non devono volgersi da negative in positive, ma esistono nella parola, dove trovano un’articolazione e uno svolgimento, entrano nella ricerca e nel fare e si rivolgono al valore, alla cifra. Non devono guarire, ma lungo la scrittura di un progetto e di un programma, quantificarsi in modo non ordinale e qualificarsi in direzione della cifra. Non importa il loro senso, o il loro significato: importa come si scrivono fino a divenire qualità.
Cifrematica viene da cifrema, proprietà della parola e da cifra, qualità della parola. Quali sono i cifremi dell’esperienza? Come ciascuna cosa diviene cifra? Se le cose entrano nella parola, dove si quantificano e si qualificano, non c’è più bisogno di opporsi a alcune e di consacrarne altre, passando dal negativo al positivo, togliendo il male per lasciare il bene. Non c’è da decodificare, decostruire, destrutturare il testo, il mondo, la vita. Occorre ritrovare la proprietà di ciascuna cosa, perché si rivolga verso la qualità. Con la lettura, si tratta di stabilire e di restituire il testo nella sua integrità, dalla proprietà alla qualità. Restituzione in qualità, non in pristino, com’era prima, come avrebbe dovuto essere prima. Con la cifrematica, nulla è come prima, e non c’è più il prima.
La stessa crisi non si oppone alla riuscita, è sulla sua via. La crisi non è la rappresentazione sociale o individuale della crisi, la crisi sempre presente, presunta segno del male funzionale al bene futuro, in attesa che finisca per la rigenerazione globale.
La crisi senza rappresentazione è il giudizio, come indica anche l’etimo (da krìnein, giudicare). Per questo, solo se il giudizio è apocalittico, se fonda la dicotomia tra buono e cattivo, tra bene e male, la crisi può essere intesa come il giudizio finale, la fine del tempo e delle cose. Anche interpellando imprenditori, industriali, bancari che non si rassegnano alla rappresentazione della crisi, la cifrematica constata che, nell’ordine delle cose nella parola, il giudizio non avviene con la fine del tempo, ma con l’instaurazione del tempo. Facendo, non a cose fatte o da farsi. Il giudizio è del tempo, è tempo in atto: la crisi è l’istanza dell’altro tempo, mentre la sua rappresentazione è un modo per rappresentarsi la differenza e la variazione. Nella stessa recriminazione del taglio ai consumi, all’occupazione, alla produzione insiste il termine taglio che rimanda al tempo, alla divisione, non alla sua fine. La crisi non ha da finire affinché giunga un altro tempo (per purificazione e rinascita). La crisi non finisce perché è l’altro tempo in atto.
In quanto giudizio in atto secondo il tempo, la crisi traccia la direzione verso la riuscita. La riuscita non ha alternativa, questo indica la crisi irrappresentabile: la riuscita non è sotto il segno del positivo e del negativo, non è il passaggio dall’andar male all’andar bene. In questo senso, potremmo intendere il teorema della riuscita: non c’è più riscatto. La riuscita è nel rischio d’impresa, non nella volontà di bene: per questo, mai come ora, occorre assumere il rischio, rilanciare la scommessa. Più che essere positivo o negativo, importa che l’esito si rivolga alla qualità, che divenga qualità. Tutt’altro che probabile la riuscita, esige il gusto dell’improbabile, quando le cose si concludono ma non finiscono.