LA BATTAGLIA INTELLETTUALE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Nel libro Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1754) Jean-Jacques Rousseau considera la civiltà, e in particolare la figura giuridica della proprietà, come la causa di tutti i mali e dell’infelicità della vita dell’uomo, che prima viveva libero nello stato di natura. Questa mitologia naturalistica, che risponde a un’idea di origine, offre le basi alla critica della civiltà degli Annali franco-tedeschi di Karl Marx (1844). Secondo Marx, la civiltà è fondata, sempre a causa della proprietà, sulla scissione tra lo stato e l’individuo e sull’alienazione di quest’ultimo. Più di cento anni dopo, nel libro Eros e civiltà (1955), Herbert Marcuse accuserà la civiltà di impedire il soddisfacimento delle pulsioni, a causa della sua organizzazione irrazionale e del dominio del principio di prestazione, e le opporrà una società basata sull’immaginazione. Il naturalismo utopico (anche l’idea di utopia dipende dall’idea di origine) di Marcuse manca la questione posta da Sigmund Freud già nel 1930, con il libro Il disagio nella civiltà, in cui obietta al comunismo che “la proprietà è un aspetto incancellabile della natura umana” e constata che ogni civiltà, non solo quella capitalistica, si fonda sul “compito assegnato a Eros di riunire uomini in una comunità”. Freud nota che questa esigenza di riunione propria della civilizzazione esige una gestione dell’amore, da finalizzare al contenimento dell’aggressività, che Freud ritiene causata proprio dalle limitazioni necessarie alla civiltà per canalizzare l’amore. “Ogni nuova rinuncia pulsionale”, scrive, “accresce la severità e l’intolleranza”, e non viceversa.
Con queste annotazioni, Freud apre la via alla constatazione cifrematica che la civiltà fondata sul naturalismo poggia sull’idea di bene che deve economizzare il male. Per questa via, cerca il suo limite o la sua definizione negativa nella barbarie, da essa stessa ipotizzata e attribuita all’Altro, rappresentato nel nemico, che può essere anche un altro popolo o un’altra razza. Così ogni civiltà edificata sulla rinuncia pulsionale è intollerante, poggia sul discorso della guerra, sull’idea di un nemico da combattere, dunque è polemologica, come nota nel suo libro L’atto antitotalitario (1983) André Gluksmann. Ma è anche civiltà tanatologica: imponendo ai sudditi il sacrificio, dunque le colpe e le pene, trova, negli altri o nelle altre società, chi debba assumerlo, chi debba essere sacrificato, chi debba espiare, anche con la morte. La civiltà tanatologica esige la vittima, parte dalla morte come pena, come espiazione; morte da assumere vivendo nella mortificazione (nell’islam la condizione di dhimmitudine – di cui parla Bat Y’e Or nel suo articolo – richiede all’infedele il pagamento della tassa (jizya) per vivere) o morendo nell’immolazione (come gli shahid, i cosiddetti martiri di Allah), due modi della vittimologia per negare l’attuale, il tempo, il fare, in nome della promessa dell’avvenire. Con la jizya si inaugura il fiscalismo come segno di sottomissione e come tangente per vivere: “Combattete quelli che non credono in Dio... finché non versino la tassa con le proprie mani dopo essersi umiliati”, scrive il Corano (IX, 29), che è servito di lezione anche per le burocrazie fiscali europee.
La civiltà che si appella all’avvenire poggia sulla religione, che, come nota Freud, giustifica (ovvero, sia accetta sia limita) l’attuale in nome dell’avvenire. Non a caso Samuel Huntington, che nel libro Lo scontro di civiltà (1996) crede che “lo scontro di civiltà dominerà l’economia mondiale”, delinea le nove civiltà presunte protagoniste di questi scontri soprattutto a partire dalle loro religioni, affermando: “Quasi tutte le maggiori civiltà della storia sono state identificate con le grandi religioni del mondo”. Il presunto scontro di civiltà è scontro tra religioni, tra dottrine religiose come alibi delle dottrine politiche. Il fondamentalismo religioso deve affermare il primato del libro già scritto, della parola già detta, del dio antropomorfico, misericordioso e vendicativo, che ama gli amici e odia i nemici. La stessa formulazione “Ama il tuo nemico”, nota Freud, aumentando le rinunce pulsionali, incrementa l’intolleranza. E come mostra l’islamismo politico, il dio misericordioso e vendicativo è un dio che agisce e trae all’azione i suoi fedeli.
Lo scontro delle civiltà di Huntington è scontro contro la civiltà e viene chiamato guerra mondiale, dunque resta nel discorso della guerra. Con il terrorismo islamista, questa guerra è globale, è contro la civiltà. La civiltà non è le civiltà, non si pluralizza come il dio delle religioni, il dio delle origini. Civilitas, la civiltà, da civis, cittadino romano. La civiltà non c’era a Babilonia o a Atene, è invenzione romana. Civitas era la cittadinanza, il diritto di cittadinanza che acquisivano gli abitanti dell’impero, a prescindere dalla nazione, dalla religione, dal censo. Civitas, poi civilitas. Non tante civilitas, ma la civilitas per ciascuno. E civitas era la città, la città dei cittadini, del fare, la città del tempo, non l’urbs, città dei muri, degli edifici, città spaziale.
Se ciascuno è cittadino, non c’è più nemico. Civilitas è assenza di nemico, di conflitto, di scontro. Quando le cose si fanno secondo l’occorrenza, quindi secondo la tolleranza, in particolare l’accoglienza e l’ospitalità dell’Altro, s’insatura l’incontro, non lo scontro. L’incontro è nella parola, l’incontro è per via del racconto: nessun incontro senza il racconto. Lo scontro nega la parola, espunge l’Altro fondandosi sulla logica del terzo escluso di Aristotele. Espunto l’Altro, dio, nel luogo dell’Altro, agisce. Allora entra nella dicotomia misericordioso-vendicativo. La filosofia aristotelica offre le basi all’islamismo politico, il terrorismo partecipa alla tanatologia.
La civiltà è romana, nasce a Roma, si diffonde nel Mediterraneo, poi nell’Europa, con l’apporto di Gerusalemme e di Atene, come scrive in questo numero Bat Y’e Or, ma anche di Alessandria. E rinasce a Firenze, con la combinazione tra arte e cultura, scienza e finanza, con il Rinascimento e i viaggi di Colombo e Marco Polo. Senza più l’idea di alternativa e di esclusione, la civiltà è cattolica, nel senso che procede dall’apertura per integrazione (katà olòn, secondo l’intero) dei vari elementi, senza bisogno di rinuncia. Non integrazione territoriale o terroristica, ma integrazione nella parola, da cui nulla può essere espunto. È la civiltà come proprietà della parola, civiltà intellettuale. Questa civiltà non è la civiltà occidentale, bensì la civiltà planetaria, civiltà che investe il pianeta nella misura in cui prescinde dall’idea di nemico e ignora il discorso della guerra illuministico-romantico. Il discorso della guerra si basa sulla giustificazione della morte in nome dell’idea di bene, e lo dimostra il terrorismo, che tanto ha imparato dell’ideologia franco-tedesca, imbevuta di Aristotele. Non con l’illuminismo, ma con il rinascimento – in particolare con Niccolò Machiavelli – nasce la modernità. È propria della modernità la distinzione tra politica e religione che ogni fondamentalismo, soprattutto quello islamico con il suo terrorismo, non tollera. Come non tollera l’arte, la scienza, l’industria, la finanza; intolleranza condivisa da molti naturalisti, puristi, burocrati in Italia e in Europa. Con il secondo rinascimento delle arti e delle invenzioni, della ricerca e dell’impresa, della finanza e della comunicazione planetaria, ciascun paese si trova coinvolto verso la civiltà, si trova a acquisire la civiltà che non è già data, che non è mai data. Questa civiltà della parola è esente dal presupposto delle civiltà tanatologiche, cioè dall’ideologia della vendetta, che fonda l’ideologia della colpa e della pena, dunque la logica sacrificale.
La battaglia di civiltà, allora, non è battaglia tra civiltà, è battaglia che instaura la civiltà. Essendo di civiltà, è battaglia senza nemico, non è contro qualcuno, è battaglia intellettuale, non ideologica o religiosa. Qui la vittoria è con l’Altro, non sull’Altro, perché la battaglia è senza l’idea di morte, quindi senza l’idea di vittima, quando il fare segue l’occorrenza. La battaglia, la battuta, il dibattito, il battito della vita. In questa battaglia nessuno può togliere il tempo, nessuno può togliere la città, nessuno può togliere nulla all’Altro. Nemmeno può togliere la proprietà, se la civiltà è proprietà della parola e non sulla parola, e non è il diritto di padronanza sulle cose. Come la parola, la proprietà della parola è inconfiscabile, inalienabile, incancellabile. Anche gli strumenti della produzione sono nella parola: per questo l’imprenditore non ha da espiare la proprietà dei mezzi di produzione inventandosi una funzione sociale che si risolva in filantropia ma, come indicano le interviste in questo numero, con mezzi e strumenti sempre da acquisire, offre un apporto indispensabile a questa battaglia senza nemico, perché produce valore e profitto con l’invenzione e l’arte, senza potere farsi vittima, dunque ignorando l’ideologia della vendetta che nega la civiltà della parola e nella parola. L’imprenditore non può procedere dall’idea di origine, foriera di distruzione, bensì opera con spirito costruttivo. La prova dell’inesistenza del sacrificio, dell’assurdità della rinuncia, dell’esigenza della riuscita: questo l’apporto essenziale che ciascun imprenditore oggi fornisce alla battaglia di civiltà, quando combatte per vincere, anziché contro il nemico, l’Altro espunto e poi rappresentato. E senza mai abbattersi, nonostante il naturalismo, il terrorismo, il fiscalismo.