LA LIBIA, GHEDDAFI E L'ITALIA
Mi occupo di
diritto del commercio internazionale dagli anni ottanta: nel 1984 ho avviato un’attività
con la Cina, nel 1986 ho proseguito con l’ex Unione Sovietica e poi, seguendo
le rotte del mercato, ho incominciato a lavorare con il mondo africano e
musulmano. Sono uno dei pochi specialisti italiani di diritto islamico e dal 2006
ho uno studio in Libia, dove ho lavorato fino a un anno fa. Nel 2010,
l’interscambio tra Italia e Libia ammontava a venti miliardi di euro. A questo
importo dobbiamo aggiungere tutto l’interscambio invisibile e intangibile, che
è difficile da quantificare. Senza contare la quota export, che veniva fatta
passare, per ragioni fiscali, dalla Tunisia, da Malta e dall’Egitto. Quindi, in
totale, possiamo ipotizzare che l’interscambio viaggiasse sui 25-28 miliardi di
euro. Io non avevo rapporti con la famiglia Gheddafi, ma un’ottima collaborazione
con l’allora Primo Ministro e portavo in Libia circa centocinquanta
imprenditori alla volta, per visite in giornata. La Libia era un paese
capoarea, a cui facevano riferimento il Ciad, il Ghana e altri paesi africani.
Per intendere l’importanza della Libia, basti pensare che, grazie a Gheddafi, l’Expo
è arrivata in Italia, anziché in Turchia, che era appoggiata da mezzo pianeta:
quando Berlusconi gli chiese di mobilitare la Lega araba e l’Unione africana,
composta da 50 stati, Gheddafi mise sul piatto i 72 voti che furono
determinanti per portare l’Expo in Italia. Se è vero che l’Expo farà crescere
di un punto il PIL italiano, questo punto lo dobbiamo a Gheddafi.
Gheddafi
aveva avviato il più grande piano industriale di sviluppo del pianeta — 800
miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture per entrare nei mercati africani
— e l’Italia ne faceva parte. Era stato approvato un progetto che prevedeva la
costruzione di una ferrovia, finanziata dal governo libico, che sarebbe partita
dal cuore dell’Africa e sarebbe arrivata a Tripoli, così tutto il traffico di
materie prime dall’Africa centrale, da quella del nord e da quella
sub-sahariana, avrebbe avuto come porto naturale l’Italia. Io avevo ottenuto
dal governo libico l’approvazione di un progetto di promozione di joint venture
italo-libiche.
Gheddafi era
molto legato all’Italia, anche perché era stato messo al potere da Aldo Moro,
quando era solo un oscuro tenente colonnello dell’esercito, e tale sarebbe
rimasto senza gli italiani. Inoltre, ogni libico di oltre 50 anni sapeva
l’italiano, la classe medio alta si era formata in Italia o aveva avuto
rapporti con l’Italia.
Gheddafi
aveva capito il problema della galassia africana. Nel 2008 cominciarono ad
arrivare ogni giorno ventimila persone dall’Egitto e dal Mali, dove la
popolazione è centuplicata in dieci anni. Con questi tassi di crescita, la
gente emigrava al nord. Le frontiere del Marocco e della Tunisia, che sono
paesi di piccole dimensioni, erano molto più controllabili rispetto a quelle dell’Egitto
e della Libia, che stavano diventando come un colabrodo. Un principio cardine
del mondo musulmano dice che chi è musulmano diventa automaticamente membro della
Umma, la grande comunità araba: diventa arabo non per razza, ma per religione,
quindi diventa fratello dell’amico musulmano pachistano, tailandese,
brasiliano. E un fratello non può non essere accolto. Fu così che si
cominciarono a vedere in giro enormi masse di africani, milioni di persone che
avevano il problema di trovare un lavoro. Allora Gheddafi, che conosceva le
difficoltà delle imprese italiane, mise a loro disposizione un paio di miliardi
di euro – che avrebbe gestito la Banca Ubae, controllata da Unicredit – per
consentire loro di acquistare quote di società libiche, in cambio di assunzione
e formazione di giovani africani. Era un progetto straordinario, che ho seguito
fin dalla nascita, il quale prevedeva un plafond di circa trecentomila euro per
ciascuna impresa. Nel 2010, Berlusconi andò a Tripoli per sancire un patto di alleanza
che faceva dell’Italia la nazione più privilegiata: in una gara pubblica alla
quale partecipava un’impresa italiana in joint venture con un’impresa libica,
anche se i costi della joint venture erano maggiori, l’impresa italiana era
favorita per legge.
Quando
l’anno dopo Gheddafi venne in Italia, per festeggiare l’alleanza, tenne un
discorso assolutamente profetico, che diceva testualmente: “Voi occidentali non
avete idea della moltitudine di persone che fino a ieri viveva sugli alberi –
usò questa espressione – e il cui orizzonte era mangiare ogni giorno e ogni
giorno sopravvivere alla savana, al caldo, alle vipere. Nel giro di pochi anni,
con internet, con i computer portatili che si ricaricano a pedale, anche questa
gente ha capito che l’orizzonte va oltre l’albero, e per loro vedere l’Europa è
come per noi vedere Babbo Natale quando eravamo bambini. Noi rappresentiamo
l’ultima diga, l’ultima barriera: se voi non ci aiutate a creare posti di
lavoro, condizioni sanitarie migliori, nuove infrastrutture affinché la gente
rimanga qui in Africa, verrete invasi e non ne verrete più fuori. Questa gente
è abituata a mangiare le cavallette, voi avete il problema che se non mangiate
la minestrina avete male al pancino. Voi non potete vincere una guerra convenzionale
con chi mangia le cavallette”.
Oggi la
produzione petrolifera è ancora molto cospicua, non ci sono più tecnici
italiani, ma, poiché l’oleodotto sbocca in Sicilia, il gas e il petrolio devono
necessariamente arrivare da noi. L’aeroporto è quasi sempre aperto, le
esportazioni, soprattutto di alimenti, proseguono, sempre via Tunisi, ma non
abbiamo dati precisi. L’Eni continua a lavorare, ma scortata dalle forze
armate, soprattutto di notte. In Libia stanno dilagando droga, farmaci e
anfetamine, ad uso di ragazzini segaligni che girano armati di mitra più grandi
di loro: sono senza controllo e sparano senza una ragione, soprattutto fuori
Tripoli. La gente ha paura e, paradossalmente, l’Isis è meno pericolosa di
queste bande.
Certamente
il panorama è estremamente frammentato, l’Europa è impotente e in questo
momento non si profilano soluzioni politiche. L’Isis sta avanzando a grande
velocità e la Libia, diversamente dall’Iran, non ha esercito: Gheddafi non l’ha
mai potenziato perché lo temeva, preferiva la milizia, e i mercenari oggi si
sono disciolti.
Gheddafi
soffriva di quella che gli psichiatri chiamano sindrome da iperventilazione e
viveva con la sua famiglia in un mondo irreale e molto dissoluto. Non aveva
abolito la poligamia, ma non l’aveva nemmeno incoraggiata: aveva due mogli, la
prima delle quali era la madre dei suoi due figli ed è sempre rimasta con lui,
non è mai stata ripudiata. Lui era un laico e il paese era laico. Aveva
cacciato i cristiani e, prima ancora, gli ebrei, ma la sinagoga e le chiese
cattoliche e protestanti erano rimaste attive e i fedeli non venivano
disturbati. Ogni tanto scoppiava qualche sommossa, ma il più delle volte era
organizzata da lui stesso, abile regista teatrale, per galvanizzare il popolo.
Al di là di
un certo delirio di onnipotenza, credo che Gheddafi sia storicamente
assimilabile a Tito: ha avuto la capacità incredibile di tenere in piedi uno
Stato che non esisteva, se non come mera espressione geografica.
L’articolo di Antonio De Capoa è tratto dal
dibattito Libia: terrorismo, profughi e
possibilità di investimento, organizzato dall’Associazione Impegno Civico
(18 giugno 2015, Bologna).