LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI E LA BIG SCIENCE
“I nostri
sensi non forniscono un’esatta registrazione del mondo intorno a noi, ma è
necessaria una qualche elaborazione”: questa è una delle prime annotazioni che
mi ha interessato nel libro di Luigi Foschini, Scienza e linguaggio. In effetti, quando noi studiamo il cielo, per
esempio, se lo guardiamo con strumenti ottici, a infrarossi, oppure a raggi X,
vediamo realtà differenti dello stesso oggetto. Tant’è che in astrofisica, per
esempio, alcuni oggetti sono stati classificati in modo diverso a seconda del
modo con cui venivano guardati. Quindi, è vero che i sensi possono essere di
per sé fallaci. Come scrive Carlo Rovelli: “Le immagini che ci costruiamo
dell’universo vivono dentro di noi nello spazio dei nostri pensieri. Tra queste
immagini e la realtà c’è la nostra ignoranza, la limitatezza dei nostri sensi e
la condizione stessa di essere parte integrante del mondo che vogliamo
studiare”.
Ma se i
sensi ci ingannano, come procedere nella scienza, si chiede Foschini? Possiamo
procedere, scrive, con “la prima cassetta degli attrezzi” che abbiamo: la
lingua. Così, egli scrive una storia della fisica e della scienza, mostrando come
essa si combini con la storia della parola e della scrittura. Per esempio, lo
sviluppo della trattatistica medioevale trasforma anche il modo di ragionare:
nel caso del dialogo dell’antica Grecia contava la battuta pronta, arguta e
fulminante, perché il confronto diretto stimola immediatamente la competizione,
l’aggressività, il desiderio di prevalere, mentre, con la scrittura interviene
il tempo per rileggere, per riflettere, per pensare. Così sorge la scienza.
Oppure, a proposito del cannocchiale, Foschini rammenta che gli ottici olandesi
avevano inventato un sistema di lenti, ma il primo a inserirle in un
cannocchiale da puntare verso il cielo fu Galilei, che in seguito, girando le
lenti, pare abbia inventato anche il microscopio. E Galilei cambia l’atteggiamento
dello scienziato verso la natura e la ricerca scientifica: la natura non viene
più contemplata, ma stimolata, provocata, indagata. Lo scienziato entra in
interazione con la natura.
Dopo
Galilei, il linguaggio della fisica diventa la matematica, uno strumento molto
efficace, astratto, per esplorare la natura, permettendoci di conoscere il
mondo e di vederlo in modo diverso, come è accaduto con la relatività e la
meccanica quantistica, che introduce, come nota Foschini, una dicotomia enorme
tra l’elaborazione dei modelli scientifici e l’immagine intuitiva sensoriale
della realtà. Con la meccanica classica, per esempio, potevamo individuare una
particella in movimento e definirne la posizione in ogni momento, mentre con la
meccanica quantistica possiamo semplicemente, con un’equazione complicata, dire
qual è la probabilità di trovare un elettrone, per esempio, in un certo punto
dello spazio. Cosa c’era prima e cosa ci sarà dopo non lo sappiamo. Eppure, la
meccanica quantistica è indispensabile per il funzionamento di strumenti
tecnologici come i telefonini o i satelliti.
È molto interessante come Foschini documenta nel
libro la differenza tra il modo di praticare la fisica oggi e quello
dell’Ottocento o del Novecento. Durante la seconda guerra mondiale, gli
americani investono ingenti capitali per inventare la bomba atomica e nasce un
modo di produrre scienza che è sembrato vincente e quindi è stato applicato
anche con altre realtà: l’Apollo 11, la costruzione degli acceleratori di
particelle o la mappatura del genoma umano hanno comportato enormi costi, ma da
lì è sorta quella struttura chiamata Big Science, che però non tutti gli
scienziati hanno accettato di buon grado. Infatti, già nel 1961, Steven
Weinberg aveva notato che la Big Science richiede considerevoli finanziamenti
pubblici, dunque l’alleanza con i politici e il sostegno dell’opinione
pubblica. Così lo scienziato diventa uno show-man che trascura la sua priorità
– cercare di capire la natura – e si promuove sui giornali o tratta con i politici,
anziché partecipare ai congressi scientifici. Inoltre, dice Weinberg, gli
scienziati che gestiscono queste Big Science diventano una sorta di
amministratori o burocrati e la scienza, dominata e capita dagli
amministratori, si smorza, se non si priva addirittura di senso. Altri la
pensano diversamente, come Derek de Solla Price, quando sostiene che in realtà
la scienza riflette il comportamento umano. Siccome è aumentato il numero di
persone che sono entrate nella scienza, la scienza è diventata “di massa”, per
cui è normale che gli scienziati si aggreghino e i più bravi tendano ad
assumere il controllo della situazione. Così il ruolo dello scienziato non
sarebbe più quello di comunicare a tutti una scienza, ma di costruirsi un ruolo
all’interno del gruppo ristretto informale di pari. Un altro effetto negativo
di questa scienza è il prodursi di una gerarchia che spesso non dipende dal
merito. Per esempio, nei ruoli chiave di molte grandi organizzazioni, vengono
posti individui che appartengono all’agenzia che versa un contributo alla
missione e che spesso non sono grandi scienziati, con un danno non piccolo per
la scienza. Inoltre, un giovane ricercatore che entra in questi grandi progetti
partecipa soltanto a una piccolissima parte, si specializza e perde il
vantaggio di un approccio globale. Ma intanto vengono prodotti centinaia di
articoli, in cui il suo nome è accanto a 200 o 300 altri nomi, anche se a quel paper egli ha contribuito pochissimo, o
magari non l’ha neanche letto. Ma perché dovrebbe scervellarsi per scrivere due
testi all’anno, se partecipando a una collaborazione ne firma venti? Però
questi venti non sono considerati validi dai centri di ricerca internazionali,
e i giovani non vengono assunti. Così, noi produciamo l’impoverimento scientifico,
ma anche economico, della nostra generazione.