LA NATURA, LA SCIENZA E LA LOGICA DELLA PAROLA
Intesi
secondo il senso comune, la natura, la scienza e la parola sono termini
contrapposti. La natura sarebbe naturale, oppure reale, comunque
autosufficiente: per Aristotele, perseguirebbe le sue finalità, al punto che il
filosofo greco prende un albero come esempio di causa finale. Dopo Aristotele,
dopo l’illuminismo divenuto ideologia corrente, questa natura autonoma avrebbe
due grandi nemici: la scienza (soprattutto se confusa con la tecnica) e l’uomo,
che potrebbero alterare, contaminare, inquinare la sua spontaneità, i suoi fini
per definizione naturali, corretti e buoni. Ma in questo modo sarebbe una natura
opposta alla cultura, senza la parola, dunque ineffabile, inerte, sostanziale:
la parola potrebbe solo esserne un raddoppiamento, uno strumento per
descriverla, per rappresentarla, se non per celarla o per manipolarla. La
stessa scienza, se intesa come res
cogitans, come il pensiero che Cartesio oppone alla res extensa, diventa una sorta di seconda sostanza, un pensiero che
si rivolge alla natura, che la plasma, la modella, la legge, ne offre la
conoscenza. Questo scientismo, questa mitologia della conoscenza sulla natura
espunge la parola, presunta poco scientifica: come nota Luigi Foschini nel suo
intervento nel dibattito in occasione della pubblicazione del suo libro, Scienza e linguaggio – dibattito che
apre questo numero della rivista – una scienza esente dalla parola poggerebbe
solo sull’osservazione visiva, di cui dimostra la fallacia, e su quel che ne
risulterebbe, ovvero il dato, presunto avulso dalla parola, indiscutibile,
ineffabile. Sarebbe una scienza che intenderebbe ben poco, soprattutto della natura.
Questo
dibattito ha constatato come la natura, nella misura in cui è intervenuta nella
parola e nella scrittura, non sia mai stata naturale. Prima, nel V secolo a.C.,
con il poema di Parmenide Sulla natura,
poi con il De rerum natura di
Lucrezio, il primo fisico della storia, che narra degli atomi e enuncia
l’infinito, e ancora con il gesto di Galilei, che nel noto brano de Il saggiatore scrive che l’universo “è
un grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi”, libro
“scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli e cerchi e altre
figure geometriche, senza i quali è impossibile intendere umanamente parola”.
Con Galilei,
la natura si scrive con una lingua, e questa lingua è matematica, per cui cade
la contrapposizione tra parola, natura e scienza. Prima di lui, Leonardo da
Vinci qualifica la natura come “artifiziosa”, tutt’altro che naturale,
scontata, altra cosa dal reale, che Jacques Lacan definiva “quello che torna
sempre allo stesso posto”. A una natura presunta reale, univoca, identica a sé,
ben si attaglia il motto del pittore Piet Mondrian: “La natura è una faccenda
terribile, io la sopporto appena”. Solo in quanto artifiziosa, la natura non è
realistica, esige il mito, ma non dell’origine e della genesi, postulate dalla
coscienza e dalla conoscenza. “Piena d’infinite ragioni” considera Leonardo la
natura, sottraendola al determinismo, al regno della necessità, al finalismo,
perché le ragioni della natura, i suoi ragionamenti, sono ragioni scientifiche,
ragioni pragmatiche, ragioni della parola. Notava Lacan: “La natura, direi per
tagliar corto, è specificata dal non essere una”.
Le ragioni
scientifiche non trovano la loro verità nella conoscenza, nel rapporto corretto
con una natura al di fuori della parola. Lacan disse che le basi della scienza
“non hanno niente a che vedere con una genesi. Per fare la nostra scienza non
siamo entrati nella pulsazione della natura, no, abbiamo fatto giocare delle
piccole lettere e delle piccole cifre, ed è con queste che costruiamo macchine
che si muovono, che volano, che si spostano nel mondo, che vanno molto lontano.
Tutto ciò non ha proprio nulla a che vedere con quanto si è potuto sognare nel
registro della conoscenza”. Per Lacan, la scienza non partecipa della
conoscenza o della presa di coscienza, semmai dell’inconscio, che “è
strutturato come un linguaggio”. Questione di significanti che non
rappresentano un significato, di lettere che non significano, ma si
trasmettono, non senza resto. “Quanto a me — dice — penso che, storicamente,
proprio attraverso pezzetti di scrittura si sia entrati nel reale. La scrittura
di queste piccole lettere, di queste piccole lettere matematiche, è ciò che fa
da supporto al reale”. La scienza non descrive, non formalizza il reale: la sua
“letteratura” non dice com’è la natura, ne indica la portata linguistica. Non a
caso, nel libro citato, Foschini riprende il noto passo di Niels Bohr: “È
sbagliato pensare che il compito della fisica sia di trovare com’è la natura;
la fisica riguarda quello che possiamo dire sulla natura”.
Questo
“sulla” non può consentire l’idea che il linguaggio sia una sovrastruttura
rispetto a una presunta realtà sostanziale. Con la cifrematica, la scienza
della parola, la natura è inattingibile perché, come scrive Armando Verdiglione,
“dimora — intera — nella parola”: possiamo dirne, non dirla. Le cose nascono
nel mito, dunque nella parola: questa la natura. E le cose rinascono nel
linguaggio: questo il rinascimento nella parola. Non a caso nel Rinascimento si
è inaugurata la scienza, dopo il Cantico
delle Creature di Francesco, dopo che la natura non è più madre o matrigna,
ma interviene attraverso l’arte e le invenzioni, nella poesia e nella
scrittura. E, con il secondo rinascimento, che contrassegna il nostro tempo nei
vari paesi, la scienza non si oppone alla parola, bensì la stessa parola è
scientifica, esige la divisione (scio, divido), non deve più servire alla
conoscenza o alla coscienza. Questa divisione non supporta la mitologia dello share, della condivisione cui tenderebbero,
secondo il libro La società a costo
marginale zero di Jeremy Rifkin, i presunti rapporti economici e umani.
Nell’era della globalizzazione, la scienza non ha da essere grande (come scrive
in questo numero Paola Grandi) né appannaggio delle grandi collaborazioni: in
quanto scienza che si enuncia nella parola, è divisione senza condivisione, è
presa della parola senza comprensione. Per questa via, la natura non è
naturale, per cui è mancata dall’ecologia, con la sua contrapposizione tra
scienza e natura, ma esige una scienza non idealistica o deterministica, bensì
ancorata all’infinito delle cose nella parola e non al finalismo e al finito.
Una scienza da cui il tempo, il fare, la trasformazione non sono espunti a
vantaggio della spazializzazione, della conservazione, della burocratizzazione.
Più che dall’universitario e dal ricercatore
burocratizzato, che temono ancora una presunta strumentalizzazione della
scienza e della natura da parte della politica e dell’industria, questa
integrazione tra natura e scienza enunciata dalla cifrematica, la scienza della
parola, oggi è avvertita dall’imprenditore e dall’industriale, dal venditore e
dal finanziere. L’imprenditore edile, per esempio, integra le risorse della
natura con quelle della tecnica, come nota in questo numero Cristina Dallacasa.
E Bruno Conti dimostra che l’azienda manifatturiera non danneggia l’ambiente in
cui opera, lo valorizza. Procedendo dall’apertura, secondo l’occorrenza,
l’itinerario degli imprenditori ciascun giorno è costituito dalla ricerca e dal
fare, dunque non può prescindere da una natura non inerte e da una scienza non
burocratizzata. Quale ricerca, altrimenti, che non sia ricerca dell’origine e
della fine? La ricerca scientifica in quanto intellettuale esige una natura
insostanziale e inconoscibile. Questa natura che è della parola, non nel reale,
è la base dell’industria della parola, non nel territorio: industria come
struttura materiale delle cose, non formale né sostanziale, da cui il terziario
non può prescindere. Solo quest’industria può esigere una scienza che sfoci
nell’invenzione e nell’arte e non miri soltanto alla riproduzione di sé e dei
suoi officianti, una scienza non salariata o assistita, che non si ritragga
innanzi al rischio e alla scommessa che ciascuna impresa esige.