TEMPO DI CONCLUDERE

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Mala tempora currunt, scriveva Cicerone, non senza ironia, quando la repubblica romana stava lasciando il posto all’impero. “È un brutto momento”, potremmo tradurre, seguendo il ritornello che viene ripetuto da più parti, soprattutto nell’ambito dell’impresa, del commercio e delle professioni. Un brutto momento, un momento negativo, addirittura un momentaccio. Innanzi a questa rappresentazione del tempo, serpeggia la paura, aumenta lo sconforto, si moltiplica la rassegnazione. C’è chi si ritira, chi si ridimensiona, chi aspetta, chi si dispera. Reazioni umane, comprensibili, condivisibili, insomma, facili. Servono a consolarsi, a crogiolare la propria soggettività. Reazioni senza interesse. Importano, per la cifrematica, i casi, rari, in cui la disperazione è estrema, incondivisibile, senza soggettività, per cui le cose procedono dall’ironia, dall’apertura e non si rimpiangono più le coperture. Importano i casi, rari, in cui, non bastando più le facili soluzioni, la paura è debordante, inamministrabile. Presa per la sua punta, la paura non viene fugata ma considerata un indizio della sintassi, dell’incominciamento, della crescita, dell’aumento. Chi si accodava all’ideologia della decrescita felice aveva paura della crescita, aveva paura della paura.
Considerare il momento brutto o cattivo, aspettare quello buono risponde a un’ideologia fatalistica, in cui il tempo è già dato o scritto, dunque predestinato. Ma il tempo predestinato è il tempo morto. La predestinazione è un fantasma di morte come fantasma di origine: se il tempo è determinato dall’origine, il tempo è finito, senza incominciamento, senza riuscita.
Il momento è una percezione dell’istante: percepire il momento è una percezione della percezione, un’allucinazione visiva, senza ascolto. La percezione non è su qualcosa, allude a una presa (prendo, in latino capio) che è della parola, non sulla parola. La presa è della parola, le cose sono prese nella parola, nel racconto, nel fare: questa è l’impresa, le cose sono prese nella parola, non nel realismo o nel fatalismo, che sono sospesi tra euforia e disforia.
Il destino dell’impresa esige l’avvenire della parola, non il fato, ovvero il già detto. L’avvenire è attuale, in atto, non aspetta che le cose passino a un avvenire futuro. Il momento attuale non è esente dal movimento (come indica il suo etimo) e dal tempo, non sospende o cancella la storia, la ricerca, la memoria dell’impresa. La memoria come esperienza e come struttura non può e non ha da essere cancellata dalle circostanze, per questo Armando Verdiglione sottolinea che il momento è la memoria dell’istante. Memoria dell’avvenire, memoria che ignora il presunto presente.
“Nessuna cosa ci appartiene, solo il tempo è nostro”, scriveva Lucio Anneo Seneca nel libro Lettere a Lucilio. “Nessuna cosa ci appartiene”, così Seneca metteva in questione il fantasma di padronanza sulle cose, che, come scriveva nel De brevitate vitae, è fonte di fatica quando la si vuole ottenere, e di ansia quando la si vuole mantenere. Il fantasma di padronanza è l’idea in base alla quale ognuno potrebbe dire e fare quello che vuole, è un fantasma di presa sulla parola, sul viaggio, sulla vita, togliendo, idealmente, l’inconscio. Poi però Seneca parla di “tempo nostro” e scrive, sempre nelle Lettere a Lucilio, a proposito del tempo, che “la natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile”. L’idea di padroneggiare il tempo lo costituisce come bene, lo finalizza all’idea di bene, presente o futuro. Lo sottopone all’uomo, che solo così può prendere tempo, sospendere le cose, dire che non ha tempo, o ne ha poco.
La gestione del tempo, talora chiamata ottimizzazione, nega il tempo perché lo immagina a misura d’uomo, misurabile e risparmiabile. Sempre a fin di bene, sempre in nome del fine e della fine. Ottimizzare il tempo è una perdita di tempo, procede dall’idea della sua fine, da opporre alla sua immisurabilità, talora percepita come violenza transitiva, come tempo che passa, e alla sua irrisparmiabilità, talora avvertita come rapina transitiva, come tempo che scorre. Se il tempo finisce, ognuno appronta una macchina: chi per misurarlo, contro l’idea che la sua irruzione stravolga la vita, chi per risparmiarlo, contro l’idea che la porti via. Chi misura il tempo non fa un passo e manca l’invenzione, chi media il tempo arresta il piede e manca l’arte. La vita passa e scorre, nel primo caso, combattendo la corruzione e, nel secondo, lottando contro il consumo. Quanto spreco di tempo per tentare di ottimizzare il tempo!
L’idea di fine del tempo si doppia sull’idea di morte. A Seneca che nell’Epistola 65 afferma che la morte è o finis o transitus sfugge la constatazione che il transito è una variante della fine. Solo come esorcismo dell’idea di morte, infatti, sorge l’idea dell’immortalità, sia in vita sia dopo la morte, che consente ogni abdicazione, rinuncia, dimissione, sparizione, perché è ancora un modo per definire gli umani a partire dalla funzione della morte, rispetto cui la vita diventa una variabile.
Il nostro tempo, senza l’idea di padronanza, senza l’idea di origine e di fine, non è il tempo presente, è il tempo in atto, è l’avvenire in atto. È il tempo nel suo infinito e nella sua eternità. Infinito dell’istante, eternità dell’istante. Noi, voi, loro non siamo soggetti per appropriarci del tempo, ma indici del suo infinito. Dicendo, facendo, scrivendo. Noi, voi, loro interveniamo nella parola, nei suoi dispositivi organizzativi, imprenditoriali, pragmatici, non stabiliamo comunità o cupole, in cui il nostro tempo viene inteso come la nostra epoca, il tempo presentificato, costrittivo, vincolante.
Per Jacques Lacan il tempo era logico ed era composto dall’istante dello sguardo, dal tempo per comprendere e dal momento di concludere. Ma il tempo per comprendere manca l’occorrenza, che non abbisogna della comprensione. E la conclusione esige il tempo, non il momento. Il tempo è tempo di concludere, non di finire. Concludere un’opera, un contratto, un affare. Concludere al piacere, concludere alla cifra. Il nostro tempo è il tempo della conclusione.