ESEMPI DI IMBROGLIO MEDIATICO AMBIENTALISTA
Mi sono avvicinato per la prima volta ai temi
dell’ambientalismo molti anni fa, quando m’interessai del problema
dell’elettrosmog. All’epoca, una pressante campagna giornalistica attribuiva ai
campi elettromagnetici una qualche responsabilità nelle leucemie infantili.
Preoccupato per la salute della mia bambina, mi misi a studiare la letteratura
scientifica, e finii con lo scoprire che il problema che tanto preoccupava
l’opinione pubblica in realtà non esisteva. Telefonai al “Corriere della Sera”,
proponendo di scrivere un articolo sull’elettrosmog, che era argomento
principale di quei giorni. La proposta fu bene accolta, finché non dissi che
col mio articolo intendevo smentire l’esistenza del problema e rassicurare
tutti. Dall’altra parte del telefono risposero che se quelle erano le mie
intenzioni allora l’articolo non interessava. Così contattai prima “La Stampa”
e poi “La Repubblica”, ma la conversazione si svolse esattamente nello stesso
modo.
Quando telefonai al “Giornale”, invece, il caporedattore mi
chiese di inviargli l’articolo, che poi pubblicò in prima pagina. Dopo
quell’uscita, il direttore mi propose di collaborare con il quotidiano sui temi
ambientali: da quel momento ho avuto modo di denunciare gli inganni
ambientalisti di cui siamo vittime, dal riscaldamento globale alle
demonizzazioni di energia nucleare, OGM e inceneritori per il trattamento dei
rifiuti solidi urbani.
Al tempo della questione elettrosmog, fondai il Movimento Galileo 2001, che ricevette
l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica (Ciampi). Il ministro della
salute dell’epoca, Umberto Veronesi, fu solidale con quelli del Movimento Galileo 2001:dietro il problema dell’elettrosmog si
nascondevano i grandi interessi affaristici delle aziende che avrebbero dovuto
realizzare, per 60 mila miliardi di lire, l’interramento dei cavi dell’Enel.
Nel 2001 fui nominato da Matteoli, ministro all’Ambiente del
successivo governo Berlusconi, coordinatore del comitato scientifico
dell’Agenzia Nazionale Protezione Ambiente. M’impegnai affinché di elettrosmog
non si parlasse più, e quella volta ebbi successo: l’elettrosmog è oggi uno
spettro definitivamente sepolto.
Consideriamo ora il caso più recente dell’Ilva. Quando nacque
(agosto 2012), io mi trovavo in montagna e ricevetti una telefonata dalla
redazione del “Giornale” che m’inviò le note delle agenzie di stampa sullo
scandalo. Dal modo in cui le notizie venivano raccontate, capii subito che si
trattava non di scandalo ambientale ma di un granchio giudiziario (uno dei
tanti) sostenuto dal solito imbroglio mediatico ambientalista. Scrissi il primo
articolo cominciando con l’osservare che già il solo modo di riportare le
notizie legate al caso lasciasse comprendere l’inesistenza stessa del problema.
Quando alla fine trovai la perizia su cui si era basata la
magistratura di Taranto per bloccare l’acciaieria, scoprii che era piena di
strafalcioni scientifici. Per fare breve una storia più lunga, faccio un
esempio. Nel documento era riportato con allarme che l’indice di mortalità
nell’area dell’acciaieria nei quartieri adiacenti all’Ilva era di 700 decessi l’anno ogni 100 mila abitanti; ma
lo stesso indice per l’Italia intera è di 1000 decessi ogni 100 mila abitanti!
Si direbbe che gli abitanti dei quartieri attorno all’Ilva vivano più a lungo. Poi:
dai dati del 2008 sulla mortalità per tumori in Italia, emerge che le aree più
colpite sono in Liguria, in Piemonte, in una parte del Friuli Venezia Giulia,
nell’alto Lazio e nell’alta Campania. I tassi su 10 mila abitanti riguardanti
la mortalità per tumore per ambo i sessi, dal 1990 al 2008, sono tra i più
bassi proprio nell’area di Taranto. E potrei continuare a smontare punto per
punto quella perizia: pubblicai un articolo in proposito, ma nessun magistrato
ha sentito la curiosità di interrogarmi.
Un’altra panzana ambientalista riguarda la gestione dei
rifiuti solidi urbani, che nei paesi del mondo civilizzato avviene attraverso
gli inceneritori. La raccolta differenziata ha un senso solo se è
economicamente vantaggiosa e se i prodotti che derivano dal riciclo avranno un
posto nel mercato. Dal riciclo del vetro, per esempio, si produce vetro scuro,
che però ha una limitata richiesta: che senso ha produrre vetro riciclato se
poi nessuno lo vuole e deve finire in discarica? Che senso ha una
sovrapproduzione di carta riciclata se poi rimane invenduta?
Il fatto è che grazie alle pressioni del racket ambientale le
nostre città traboccano di immondizia, con batterie di cassonetti ogni 50
metri: siamo ridotti a vivere noi stessi dentro una discarica. La raccolta
differenziata capillare è troppo costosa: avrebbe senso nelle zone residenziali
con una urbanistica fatta di villette, ciascuna con la propria backyard, ma non nelle città con
urbanistica condominiale. La gestione dei rifiuti solidi urbani è, di fatto, un
racket. La raccolta differenziata e quella porta a porta costano almeno quattro
volte più dello smaltimento tramite inceneritore, e non sono gestibili.
Quanto al clima, una delle più grandi frottole che ci hanno
raccontato negli ultimi quindici anni è quella legata al riscaldamento globale,
o global warming. La frottola consiste in questo: a causa delle
emissioni in atmosfera di anidride carbonica (prodotta dalla combustione di
petrolio, carbone e gas naturale), l’umanità sarebbe responsabile dell’aumento
della temperatura del pianeta. È vero che viviamo in un periodo più caldo
rispetto al passato, ma bisogna prestare molta attenzione ai dati che ci
vengono forniti dai geologi, non agli allarmi del racket ambientale. Il
rapporto del comitato NIPCC (Nongovernmental International Panel on Climate
Change), un comitato di scienziati di cui faccio parte, è in contrasto con
quanto sostenuto dal comitato politico delle Nazioni Unite, l’IPCC
(Intergovernmental Panel on Climate Change). La letteratura scientifica
studiata dai due comitati è esattamente la stessa, ma le conclusioni che ne
emergono sono molto diverse.
Il rapporto del NIPCC conclude che è la natura, non l’uomo, a
governare il clima. Il nostro pianeta vive intervalli di glaciazione alternati
con intervalli di optimum climatico, con periodo temporale di questi cicli pari
a circa 100 mila anni: oggi (e da almeno 10 mila anni) siamo in pieno optimum
climatico, all’interno del quale sono presenti altri cicli con periodi più
brevi. Per esempio, se consideriamo i dati degli ultimi 1000 anni, vediamo che
il Medioevo fu un periodo di optimum climatico: Erik il Rosso s’installò in
Groenlandia (Greenland, Terra Verde) e in Inghilterra si coltivava la vite. A
questo periodo seguì una piccola era glaciale, con minimo di temperature
intorno a 400 anni fa, documentata anche da alcune testimonianze pittoriche che
riproducono o un Tamigi ghiacciato e attraversato dai carri o persone che
pattinavano nella laguna di Venezia ghiacciata. Oggi, grazie a un processo che
è cominciato nel 1600, cioè dal minimo della piccola era glaciale, siamo in un
nuovo optimum climatico. Ma nel 1600 non c’erano le attività umane di oggi e
non c’era alcuna emissione di CO2 nell’atmosfera. Quando dicono che le
temperature attuali sono le più alte registrate da 400 anni è perché 400 anni
fa eravamo nel pieno di quella che i geologi chiamano, appunto, piccola era
glaciale.
Se poi guardiamo ai dati degli ultimi 100 anni, notiamo che
tra il 1940 e il 1970 (proprio nel periodo del boom industriale e di
emissioni!) le temperature si stabilizzarono. E se consideriamo gli ultimi 12
anni, le emissioni di CO2 crescono senza sosta, ma le temperature globali si
sono stabilizzate.
La congettura che afferma che il riscaldamento globale
sarebbe causato dall’uomo, è smentita da un altro fatto oggettivo: quella
congettura prevede a 12 chilometri
nella troposfera equatoriale un aumento di temperatura triplo rispetto
all’aumento che si osserva a livello della superficie terrestre. Per
l’IPCC, quel fattore 3 di aumento sarebbe stata “l’impronta digitale” del
riscaldamento globale antropogenico. Orbene,
le misure satellitari non solo non osservano, lassù, alcun maggiore
aumento di riscaldamento, men che meno triplo, ma osservano addirittura un
rinfrescamento!
Malgrado la confutazione delle rivelazioni satellitari, il global
warming non è stato smentito dalla commissione delle Nazioni Unite. Forse
perché a livello mondiale circola un ricco affare, quello dell’installazione
degli impianti per l’energia alternativa, eolica e fotovoltaica. Se queste
tecnologie avessero un senso, si affermerebbero da sole. Per “sponsorizzarle”,
sono stati inventati problemi e allarmi come quello del riscaldamento globale.
Gli impianti dell’eolico e del fotovoltaico sono giustificati da questo
allarme.
In realtà, queste tecnologie alternative sono un colossale
fallimento. L’energia elettrica è un bene che va prodotto nel momento stesso in
cui serve, ma con le tecnologie eolica e fotovoltaica questo è impossibile: è
prodotta solo se il vento soffia e se il sole brilla. Oggi, in Italia, l’85 per
cento dell’energia primaria viene dai combustibili fossili, il 6 per cento dal
nucleare (d’importazione), il 6 per cento dall’idroelettrico, il 2 per cento
dalle biomasse — ovvero la legna da ardere —, dalla biotermia e dai i rifiuti
solidi urbani inceneriti. Solo l’1 per cento viene dalle fonti alternative,
eolico e fotovoltaico. E la ragione è quella detta: queste tecnologie non
funzionano, non producono energia secondo le modalità con cui vorremmo usarla.
Il mondo, a dispetto della crisi che sta vivendo, si è
impegnato ad aumentare l’utilizzo di energia dalle fonti rinnovabili. Anzi,
primario responsabile di questa crisi è proprio quell’impegno. L’Italia si è
impegnata sul fotovoltaico per i prossimi 20 anni con 200 miliardi di euro. Il
denaro speso per la riduzione della CO2, dal 1990 al 2013, non è servito a
nulla: le emissioni non sono diminuite, ma aumentate. Nel 1990 le emissioni
mondiali di CO2, misurate in megatonnellate equivalenti di petrolio, erano di
7.400 unità, nel 2013 di 9.800. Per ridurre le emissioni di CO2 nella
produzione elettrica, che è quella per la quale si propaganda l’utilizzo di
energie alternative, bisognerebbe aumentare il nucleare, non l’eolico o il
fotovoltaico. Una cosa è raddoppiare eolico e fotovoltaico, che in Europa
contribuiscono alla produzione elettrica per il 2 per cento, un’altra sarebbe raddoppiare
il nucleare, che in Europa è al 30 per cento. Bisogna dunque impegnarsi nella
costruzione di impianti nucleari e, ove ancora possibile, d’impianti
idroelettrici.
La riduzione delle emissioni di CO2, che è stata fortemente
voluta e per la quale sono stati fatti notevoli investimenti, non si è
realizzata perché è tecnicamente impossibile. In Italia la richiesta minima di
elettricità per 24 ore è di 30 gigawatt, e in alcuni momenti della giornata,
come la sera verso le sette, tocca i 60 gigawatt. La base costante di 30
gigawatt deve essere necessariamente soddisfatta con le fonti di energia
convenzionali: idroelettrica, nucleare, combustibile fossile, giacché su sole e
vento non ci si può fare affidamento: di notte il sole non brilla e il vento
non sempre soffia secondo i nostri desideri. Dal punto di vista economico le
scelte sono state devastanti: per produrre 1 gigawatt elettrico serve o un
impianto a gas da 1 miliardo, o uno a carbone da 2 miliardi, o uno nucleare da
3 miliardi. Oppure uno eolico da 6 miliardi o uno fotovoltaico da 60 miliardi!
Eolico e fotovoltaico, quindi, possono coprire una piccola
parte di produzione di energia elettrica, ma gli impianti hanno, a parità di
chilowattora prodotti, prezzi altissimi. La spesa affrontata per queste fonti
di energia alternativa è tra le cause della nostra crisi, perché per qualunque
nostro gesto abbiamo bisogno di energia.
Una parola a questo proposito va anche detta sul mito del
risparmio energetico. Noi dovremmo auspicare che si usi più energia, non meno,
perché se usiamo energia significa che stiamo producendo. I dati ci dicono che
i paesi che usano meno energia sono quelli più poveri, dove la qualità della
vita è molto bassa, come, ad esempio, la Sierra Leone o il Burundi. Il nostro
modello, il nostro faro, è la Sierra Leone o il Burundi? I macchinari degli
ospedali hanno bisogno di energia, la produzione di vaccini ha bisogno di
energia, la potabilizzazione dell’acqua ha bisogno di energia. Usare energia è
una benedizione, anche perché, prima del boom industriale, chi forniva
l’energia necessaria? Gli schiavi. Ai tempi dell’antica Roma o dell’antica
Grecia, il 90 per cento della popolazione viveva in uno stato di schiavitù,
ufficiale o ufficiosa. Il risparmio energetico è una sciocchezza. Non c’è
nessuna ragione per risparmiare energia. Al massimo non bisognerebbe sprecarla.
L’efficienza energetica è un altro mito, peraltro in
contraddizione con il risparmio energetico. Quando un bene è disponibile con
maggiore efficienza, inevitabilmente aumenta il suo uso. Noi, oggi, abbiamo più
automobili rispetto a cento anni fa, perché è aumentata la loro efficienza.
L’efficienza nello scambio di informazioni è aumentata, grazie, ad esempio,
alla mail elettronica, ma questo ha comportato un aumento dello scambio di
lettere. Ottima cosa l’efficienza, ma l’ignoranza ambientalista non capisce che
è in contraddizione con il risparmio.
Gli impianti nucleari sono la prima fonte di energia
elettrica in Europa, ma rispetto al nucleare ci sono state raccontate molte menzogne.
Chernobyl: morirono 28 persone per dosi eccessive di radiazioni nel giro di tre
mesi, ma si trattava dei soccorritori che furono inviati, senza alcuna
protezione, dal regime comunista a
spegnere gli incendi nell’impianto. Furono dichiarate affette da sindrome da
radiazione acuta altre 137 persone, ma tra queste solo 19 morirono, nei
successivi 20 anni, per cause non necessariamente legate all’esposizione alle
radiazioni.
Quante persone sono poi decedute tra la popolazione civile a
causa delle radiazioni immesse in atmosfera dopo il disastro di Chernobyl?
Zero. Se consideriamo i dati dell’UNSCEAR (United Nation Scientific Committee
on the Effects of Atomic Radiation), il comitato dell’ONU che si occupa dello studio
degli effetti delle radiazioni nucleari, a distanza di 20 anni dal disastro, si
è osservato l’aumento di una sola patologia legata alle radiazioni, il tumore
alla tiroide. Si sono osservati 6 mila casi, dove se ne sarebbero dovuti
osservare 300. La causa di questo aumento non è stata però l’esposizione alle
radiazioni emesse, bensì il fatto che, negli anni successivi al disastro, la
tiroide delle popolazioni locali è stata fatta passare in modo capillare sotto
l’ecografo, e sono così emersi i tumori occulti. Molti di noi hanno un tumore
senza saperlo. Se oggi si facesse uno screening alla tiroide della popolazione
bolognese, i giornali ne farebbero senz’altro uno scoop: Aumento nella notte di
incidenza dei tumori alla tiroide a Bologna. Con 6 mila casi di
tumore alla tiroide ci si sarebbero aspettatati all’incirca 300 decessi, invece
i decessi per tumore alla tiroide, in 25 anni, nelle aree di Ucraina,
Bielorussia e Russia, sono stati 15, tanti quanti sono stati in qualunque altra
area del mondo comparabile per estensione e popolazione. Un dato tragico,
invece, emerso dal rapporto dell’UNSCEAR è quello dell’aumento dell’incidenza
dei suicidi registrato dopo il disastro: molta gente non ha saputo convivere
col terrore diffuso dagli ambientalisti e ha preferito suicidarsi, piuttosto
che vivere con la prospettiva di vita raccontata loro da quei mercanti di
terrore. Ci sono zone nel mondo (come l’Iran e il Kerala) dove le popolazioni
sono esposte a quantità di radiazioni naturali anche 50 volte superiori a quelle
cui furono esposte le popolazioni dell’area di Chernobyl, senza che si
osservino conseguenze sanitarie per quella elevata esposizione.