OLTRE LA CRISI: IL VENTO DELLA GLOBALIZZAZIONE
Diventare globali non è
un’opzione, ma un obbligo. Siamo in un momento storico straordinario, che in
Italia continuiamo a considerare “crisi”, anziché opportunità di
trasformazione, di rinnovamento, come già avviene in molte parti nel resto del
mondo. La generazione attuale di imprenditori può contare su un numero di
consumatori potenziali molto maggiore rispetto alla precedente: circa due
miliardi in più. È in corso una nuova rivoluzione industriale che non si limita
a internet e al digitale, ma investe soprattutto sistemi informativi grandi,
integrati e aperti, che consentono alle aziende di essere molto più rapide,
capaci di valutare il proprio comportamento e di comunicare con i propri
stakeholder. Questi fattori portano inevitabilmente problemi legati al fatto
che si è di fronte a mercati vasti, lontani e non facili, e per questo bisogna
avere capacità e cultura d’investimento in tecnologie da saper utilizzare e
connettere.
La crisi non è stata
foriera di meri cambiamenti, bensì di un vero e proprio mondo nuovo che offre
diverse opportunità e richiede regole differenti rispetto al passato. Va
ripensato il contesto. Per le aziende italiane questo non comporta grandi
rivoluzioni ma aggiornamenti e investimenti, anche d’idee, e di lungo periodo.
Serve un’apertura ai capitali disponibili – che non si limiti alle sole banche
– e a persone con esperienze diverse che affianchino l’imprenditore. È
necessario, quindi, un consistente e lungo lavoro culturale e di educazione. Si
devono creare nuove generazioni di cittadini del mondo, che siano più aperti, capaci e
veloci per vincere le nuove sfide.
L’export, in questo
periodo, è l’unico fattore trainante della nostra economia che abbia consentito
all’Italia, dal 2009, di non sprofondare ulteriormente; nel 2015 si stima una
crescita delle esportazioni mondiali del 5 per cento rispetto al 4 per cento
del 2014, e per l’Italia, nonostante la stagnazione a livello Ue, potrebbero
crescere del 3,5 per cento rispetto al 2 per cento del 2014. L’apertura dei
mercati permette di cogliere grandi opportunità e soprattutto la possibilità
d’incassare il dividendo della globalizzazione. Le imprese, infatti, possono
contare su un mercato mondiale che entro il 2020 avrà 800 milioni di
consumatori in più nella classe media e 200 milioni in più nella fascia dei
ricchi, due classi che certamente apprezzano il made in Italy e che potrebbero
portare entro quindici anni a una crescita dell’export globale di 200 miliardi,
di cui l’Italia potrebbe intercettare il 10-15 per cento.
Le imprese italiane, in
una situazione di domanda stagnante, devono potenziare l’export e sviluppare la
capacità di penetrazione all’estero. Il settore manifatturiero in Italia è
sempre stato il traino dell’economia e oggi rappresenta il 95 per cento delle
nostre esportazioni; i prodotti made in Italy si confermano ai vertici della
classifica mondiale del commercio internazionale nei settori di forza
dell’Italia – beni strumentali, moda, arredamento, alimentare, ecc. – però il
sistema imprenditoriale è giunto impreparato di fronte alla globalizzazione:
per cogliere quest’opportunità, deve eliminare alcune debolezze, innanzitutto
il numero esiguo d’imprese che esportano all’estero – 12mila imprese con più di
cinquanta addetti generano tre quarti dell’export italiano –; altre criticità
sono rappresentate dalla dimensione d’impresa, dalle strutture finanziarie
deboli e dal deficit di preparazione manageriale.
Si stima che in Italia ci
siano altre 70mila aziende potenziali esportatrici, ma queste, rispetto al
resto d’Europa, sono prevalentemente micro imprese; la dimensione è il
principale ostacolo alla loro globalizzazione e all’accesso dei capitali. In un
contesto globale del credito che vede aumentare le regole, sarà sempre più
difficile per le banche concedere finanziamenti a imprese poco aperte a
strutturarsi secondo i criteri internazionali di governance e trasparenza. La
struttura dell’export italiano rende difficoltoso per le banche finanziare le
micro imprese anche per gli obblighi imposti dalle regole europee, e ciò ha
consentito di modellare solo pochi strumenti di sostegno.
La finanza è una parte
essenziale del problema, il sistema bancario italiano, sebbene abbia costruito
due grandi e solide banche europee, ha ancora molte difficoltà, c’è bisogno di
alternative che vanno aiutate e non demonizzate, ma servono altri stimoli alla
finanza per la crescita e per l’impresa. È essenziale superare il cosiddetto
“passaporto degli investimenti”: esiste un problema culturale molto forte che
non è solo italiano ma anche europeo. Se arrivano capitali dall’estero che
salvano i marchi italiani questi vanno aiutati e non contrastati. È necessario
creare un meccanismo virtuoso, di fusioni e accorpamenti, essenziale per la
crescita.
La mancanza di stabilità
del quadro istituzionale italiano penalizza ulteriormente le imprese, impedendo
una seria programmazione. La continuità è l’elemento fondamentale e bisogna
unire all’attrazione naturale dell’Italia l’organizzazione di lungo periodo. Va
inoltre rilevato che tasse e tagli alla pubblica amministrazione, seppur
necessari, hanno reso più difficile il sostegno dello Stato alle imprese.
L’azione del governo, comunque, è concentrata su più fronti: il rilancio degli
investimenti, con particolare riguardo alla valorizzazione dei marchi,
l’eliminazione dei vincoli finanziari, il sostegno alle PMI sul fronte
dell’internazionalizzazione, con un piano triennale d’investimento di 220
milioni di euro; occorre anche favorire l’apertura verso il mercato di capitali
e attrarne dall’estero.
Ciascuno deve fare la
propria parte: Stato, banche e imprese. L’internazionalizzazione non è un
“senso unico”, un’Italia aperta e forte nel mondo è un’Italia che sa attrarre
investimenti dall’estero.