LA CITTÀ PROCEDE DALL'APERTURA, NON DALLA BUROCRAZIA
Lei oggi dà un contributo alla qualità della vita nelle città
d’Italia e di altri paesi, attraverso le macchine all’avanguardia per la
pulizia urbana fabbricate dalla RCM S.p.A., di cui è amministratore delegato.
Ma, prima di entrare nell’azienda di famiglia, studiava architettura, quindi
nutriva già un interesse per la città e l’organizzazione dei suoi ambienti. In che modo una
formazione in architettura può incidere sulle percezioni di chi vive gli spazi
urbani, pensandoli in corrispondenza con l’ambiente, aperti?
L’architettura ha sempre avuto il merito di pensare
l’organizzazione dello spazio urbano come apertura, non solo nel periodo
razionalista. Nel periodo gotico, per esempio, l’architettura era ispirata da
un senso di espansione, di luce, di forza vitale, che si esprimeva attraverso
costruzioni fortemente slanciate verso l’alto. Anche le città medievali, che
possono sembrare chiuse dalle mura che le circondano, in realtà, al loro
interno, presentano un continuo incrociarsi di spazi, in un’organizzazione
molto articolata. Chi si cimenta con l’architettura si accorge che gli spazi
entrano in comunicazione tra loro, ma oggi difficilmente il cittadino
percepisce un’apertura nell’organizzazione degli spazi urbani, a causa della
mancanza di continuità tra gli spazi pubblici e quelli privati. La nostra casa,
ad esempio, è un rifugio, uno spazio in cui ci chiudiamo e, mentre curiamo
questo spazio, ci disinteressiamo di quello immediatamente esterno, che non
sentiamo come nostro.
Il centro storico oggi è isolato dalla periferia, che si è
espansa in modo molto poco articolato, fino a risultare deteriorata dal punto
di vista degli spazi. L’avventura dell’architettura moderna, ovvero la
scommessa di creare apertura, è fallita.
Quanto è importante per un cittadino percepire se stesso non
come elemento isolato dal resto, ma in uno scambio costante con l’ambiente e
gli spazi della città?
Che lo spazio urbano influenzi anche il pensiero è certo.
Quando a diciotto anni mi sono iscritto alla facoltà di architettura, l’ho
fatto con la persuasione che l’architetto fosse una figura capace di cambiare
il mondo, creando un ambiente favorevole. Avere nozioni di tipo architettonico,
e cioè cognizioni rispetto agli spazi che viviamo, alla loro funzione, alla
loro utilità, alla loro bellezza, è sicuramente utile per ciascun cittadino.
Ma, finché gli architetti si chiuderanno nelle loro torri d’avorio, facendo
credere di essere al di sopra degli altri, i cittadini si sentiranno lontani
dall’organizzazione urbana. L’architetto, che è un interprete delle esigenze
più elementari della vita delle persone, ha una missione altissima, che deve
portare avanti con umiltà, mentre oggi prevale l’arroganza.
Per questa ragione lei ha deciso di cambiare rotta?
Io ho cambiato rotta per una serie di cause che si sono
verificate in un momento particolare. Ho avuto diverse delusioni in campo
urbanistico: troppo spesso, nelle opere che realizzavo, la finalità di
apportare beneficio alla città passava in secondo piano, a causa degli apparati
politici che si occupavano dei progetti. Inoltre, dagli anni settanta a oggi,
il mestiere di architetto è diventato davvero impossibile, la burocrazia l’ha
invaso con troppe regole. Così ho cominciato a perdere interesse. Nel
frattempo, l’azienda familiare cresceva, grazie al lavoro dei miei fratelli, e
c’era bisogno di un apporto in più. Per questo sono entrato in azienda e ho
fatto la scelta giusta.
In effetti, dagli anni settanta a oggi, l’unico contributo
che si può dare è lavorare e investire con le proprie forze, perché il pubblico
porta più ostacoli che agevolazioni…
Infatti, la tendenza è questa. Bisogna dire che negli anni
settanta Modena era una delle città più vivaci in Italia, dal punto di vista
economico e culturale. Era una città che aveva bisogno di tutto e chi aveva
energie poteva esprimerle al massimo. Oggi purtroppo non è più così, e non solo
a causa della crisi, ma soprattutto perché negli anni ha preso il sopravvento una
burocrazia che porta le persone ad avere il terrore di sbagliare da una parte e
il bisogno di difendersi dall’altra. Si è creata una rete che imprigiona le
attività, che opprime l’impresa con regole assurde.
Abbiamo il vento contro, ma dobbiamo trovare quello a favore…
Infatti, si tratta di trovare quei piccoli refoli che
continuano a soffiare, come quello della Spira Mirabilis, un’orchestra di
musicisti giovani, di diverse nazionalità, senza direttore, che concentra il
proprio lavoro su un brano, di volta in volta, e ne approfondisce lo studio per
costruirne un’interpretazione collettiva, propria di ogni membro del complesso
e poi lo esegue, in diversi luoghi di Italia e d’Europa. A Formigine, la città
che ha costruito un auditorium con il loro nome e che rimane la base dei loro
incontri principali, è nata l’Associazione Amici della Spira Mirabilis, di cui
sono vicepresidente, con il solo scopo di supportare, senza cambiarlo in alcun
modo, questo unico e alto progetto e per dare un contributo al suo
proseguimento. È un progetto che va alimentato. Una legge della fisica dice che
tutto tende alla quiete, bisogna dunque evitare che l’entusiasmo cali.
Dove non c’è il vento, si forma la palude. La città nasce
proprio dall’incontro di cose in movimento…
Certo. Il
vento è ciò che porta in giro il polline, quindi la vita.