IL VENTO DELL'INDUSTRIA SIDERURGICA ITALIANA
In questo numero apriamo il dibattito sul
vento della salute che l’impresa ha la chance di offrire al paese. Qual è la
sua testimonianza in oltre quarantacinque anni di attività nel settore
siderurgico, che tanto ha contribuito all’avanzamento industriale, oltreché
civile, dell’Italia?
La crisi economico-finanziaria del 2008 ha
radicalmente modificato il sistema produttivo occidentale, mettendo in questione
anche quelle che erano considerate le cosiddette regole del mercato. I suoi
protagonisti, le imprese di grandi dimensioni, che investivano in
approvvigionamenti di ingenti volumi, hanno chiuso o si sono trasferite
altrove. Pertanto, attualmente i volumi tendono a ridursi a vantaggio di
prodotti di punta che però sono limitati a mercati di nicchia. Il nostro Gruppo
ha la chance di giocare la sua partita in diversi settori di nicchia come
quelli degli stampi, del medicale e dell’aeronautico, che rappresentano
eccellenze italiane. Il problema si pone rispetto alla trasformazione dei tempi
di lavoro. Gli approvvigionamenti di materie prime, per esempio, avvengono man
mano che arrivano le commesse, a differenza di quanto accadeva in passato,
quando i magazzini delle aziende contenevano grandi quantità di merce
acquistata in anticipo rispetto agli ordini dell’anno precedente. Oggi, le
nuove politiche di mercato esigono una notevole flessibilità organizzativa, che
inevitabilmente rende più complessa la gestione dei tempi di produzione, con
conseguente maggiore dispendio di risorse. Non a caso, le aziende del Gruppo
Sefa sono state attrezzate di nuove macchine utensili e collaboratori per
offrire maggiori flessibilità e professionalità. La macchina automatica, per
esempio, è una macchina personalizzata, che non si può produrre in serie come
l’automobile. Per realizzarne una occorrono migliaia di componenti e noi
forniamo anche quelli semilavorati, accorciando così la filiera produttiva, ma
radunare tutte le forze che intervengono in questo lavoro, e in tempi brevi, è
molto impegnativo, soprattutto in un mercato in forte recessione. Non tutte le
aziende di sub-fornitura hanno la flessibilità organizzativa e economica per
sostenere i nuovi ritmi di produzione, soprattutto se il mercato richiede il
prodotto finito in pochi giorni. In Italia, la materia prima arriva dall’estero
– nel nostro caso dalla Svezia e dalla Germania – impiegando più tempo che in
passato per giungere a destinazione. Questo accade quando chi è preposto a
consegnare la merce aspetta che il carico sia completo. Ma, dal momento che ora
i volumi ordinati sono minori, occorre più tempo prima di accorpare le quantità
necessarie per la spedizione. I nuovi ritmi organizzativi fanno sì che talvolta
i collaboratori debbano lavorare di più anche solo per preparare i preventivi
con precisione e competenza. In generale, la filiera che accompagna il nostro
lavoro di sub-fornitori è sotto pressione per queste ragioni. Chi produce oggi
deve fare i conti con la richiesta sempre crescente di materiale estremamente
personalizzato e da consegnare in breve tempo.
È di questi giorni la notizia delle nuove
assunzioni di Fiat nello stabilimento di Melfi…
Si tratta certamente di un buon segnale.
Speriamo che questo investimento porti benefici all’intera filiera siderurgica.
Per quel che riguarda Sefa, in effetti, posso dire che abbiamo registrato
qualche dato positivo rispetto a Fiat, noi realizziamo infatti il materiale che
occorre per le attrezzature di alcuni modelli di auto. In questo settore le
risorse in campo devono essere molte: occorrono innanzitutto ingenti capitali,
un numero elevato di operatori, progettisti, sub-fornitori e stampisti. È
questa la filiera che crea ricchezza. Laddove si muovono più persone, a ogni
passaggio si produce valore aggiunto.
Quali sono i progetti di Sefa per
rilanciare il Gruppo nel 2015?
Le tre aziende del Gruppo hanno chiuso il
bilancio del 2014 con un fatturato in crescita. Le difficoltà non sono interne,
ma sono legate al territorio e alle politiche internazionali, che hanno un
ruolo importantissimo nei rapporti commerciali, soprattutto per quanto riguarda
le materie prime. Basti pensare alla svalutazione del rublo o alle guerre ai
confini europei e nel Medio Oriente: questi eventi destabilizzano le economie e
favoriscono scambi intragroup che
generano una distorsione nella concorrenza. La sub-fornitura subisce più
di ogni altro comparto produttivo questi mutamenti politico-economici, che
condizionano le politiche di approvvigionamento delle materie prime essenziali
per un paese manifatturiero come l’Italia. Oggi, dunque, non basta più essere
flessibili e professionali. Nel nostro caso, ad esempio, non è indifferente
quello che sta accadendo a causa del conflitto economico fra gli Stati Uniti e
la Russia. L’agroalimentare ne sta risentendo moltissimo, come tutti i settori
legati all’esportazione, perché la Russia ha aperto nuovi canali. È importante
quindi che chi governa il paese abbia la cultura industriale per gestire
situazioni come quella che stiamo vivendo.
In quarantacinque anni di attività nel
settore siderurgico ho assistito alla trasformazione del paese da agricolo a
industriale, tanto da divenire leader mondiale fra i paesi del G7, il Gruppo
delle sette nazioni con la ricchezza netta più elevata al mondo, mentre oggi
sembra quasi che la tendenza politica sia quella di favorire la
deindustrializzazione. La mia esperienza d’imprenditore si è
sviluppata principalmente in Emilia Romagna, regione che ha il secondo polo manifatturiero
d’Europa, dopo la Bassa Sassonia, in Germania. L’area tra Reggio Emilia,
Modena, Bologna e Imola ha una cultura industriale fatta da singoli uomini, che
ne hanno fatto una fra le zone più floride nella produzione manifatturiera
italiana. Qui le persone investono con una tensione costante a migliorarsi,
fino a divenire punto di riferimento per i propri figli e anche per i propri
collaboratori. E tutto questo avviene mentre fuori dalle aziende sono
alimentati i pregiudizi nei confronti degli imprenditori, a torto considerati
spesso alla stregua di sfruttatori di manodopera e evasori.
Se le politiche industriali nazionali sono carenti, cosa
possono fare le piccole e medie imprese a livello locale per portare un nuovo
vento di salute nel territorio?
La piccola e media impresa in Italia non
ha mai influito sulle politiche industriali. Non c’è mai stata una legislazione
mirata per queste realtà, che costituiscono il vero tessuto produttivo del
nostro paese. Spesso, invece, hanno giocato un ruolo decisivo le aziende a
partecipazione statale. Occorrerebbe una politica che favorisca la piccola e
media impresa manifatturiera, se vogliamo tornare a essere leader mondiali.
Circa l’80 per cento della ricchezza italiana deriva da queste imprese, che
sono anche la maggiore fonte di occupazione per i lavoratori. È una peculiarità
che non esiste in nessun altro paese del mondo e che non può più essere
ignorata dalla politica nazionale, prima che da quella europea.
Se ogni piccola impresa assumesse anche
solo una persona, Bologna conterebbe non meno di 5.000 occupati in più. Le
piccole aziende del territorio però dovrebbero essere in condizioni di poter
investire in macchine all’avanguardia e nella riorganizzazione interna dei
tempi di produzione per affrontare le richieste del mercato. Senza una politica
industriale, non si gestiscono nemmeno emergenze come le frane, per esempio,
non si sviluppa l’agricoltura e non migliora la qualità del settore sanitario.
Al paese serve l’industria che crea beni durevoli.
La nostra strategia è quella di continuare a fare piccoli ma
importanti investimenti, per essere sempre aggiornati e rispondere a ciascuna
richiesta dei nostri committenti con prontezza e precisione. Inoltre, ci stiamo
organizzando per aumentare il fatturato annuo, andando oltre i 26 milioni di
euro.