L'ABILITÀ SI ACQUISISCE, NON È INNATA
Nell’intervista
pubblicata sul numero precedente del nostro giornale (n. 61, dicembre 2014),
lei sottolineava l’esigenza di “mettere in discussione qualsiasi conformismo e
qualsiasi tentativo d’imporre un modo standard di fare le cose”. Questo
dovrebbe essere ribadito tanto nell’impresa quanto nella famiglia e nella
scuola, soprattutto in un momento in cui si emanano leggi come la 170, che,
nonostante il suo scopo nobile di dare pari opportunità a ciascuno, rischia
invece d’introdurre discriminazioni, stigmatizzando i bambini che hanno
difficoltà di lettura, scrittura o calcolo, attraverso la richiesta di
certificazioni di un cosiddetto disturbo dell’apprendimento per avere il
diritto agli insegnanti di sostegno…
Certamente
la vita degli insegnanti non dev’essere facile oggi: spesso i genitori
giudicano il loro lavoro senza averne titolo e questo va a scapito della
libertà e dell’indipendenza che invece ciascuno dovrebbe avere nello
svolgimento della propria attività, se vogliamo che non venga meno la sua
responsabilità.
Forse
proprio questa stessa tendenza a delegare sta alla base di una legge come la
170, che lasciaalla
diagnosi di un operatore del Servizio sanitario nazionale l’ultima parola
sull’organizzazione dell’attività educativa nei casi di bambini che non stanno
al passo con i tempi dei programmi ministeriali, pur non essendo affetti da
“patologie neurologiche e deficit sensoriali”, come recita la legge…
È
assurdo pretendere che tutti abbiano gli stessi tempi di apprendimento. Anche
in azienda, quando c’è da trasmettere qualcosa a un collaboratore,
l’imprenditore o il responsabile di reparto devono capire che le persone non
possono essere ipnotizzate. Di recente ho incontrato una bambina di quattro
anni che ha qualche difficoltà di comunicazione, se considerata secondo gli
standard della sua età: non riesce ancora a parlare, ma ha già imparato a
scrivere e a fare i primi calcoli. Ebbene, anziché alimentare questa particolarità,
gli educatori la limitano perché la bambina deve restare pari agli altri. È
paradossale, perché così la bambina non ha modo di comunicare, viene tenuta in
un angolo e, appena qualcuno si avvicina, lei urla spaventata. Si potrebbe
invece utilizzare questa sua capacità di scrivere come strumento per inventare
giochi in cui lei riesca ad avere uno scambio con gli altri. Ma perché non
viene perseguita una via di questo tipo, lungo l’integrazione, anziché
attestarsi sulla presunta necessità di seguire i protocolli? La prima risposta
è che non c’è tempo. In realtà, valorizzare la particolarità può dare risultati
inestimabili in termini di apprendimento, mentre il tentativo di omologare le
persone, anche nell’impresa, è ciò che veramente fa perdere tanto tempo e alla
fine fallisce.
Ciò
che la legge 170 definisce “disturbi dell’apprendimento” – dislessia,
disgrafia, discalculia e chi più ne ha più ne metta –, tutti questi dis-
davanti alle parole in fin dei conti alludono a una cosiddetta disabilità.
Eppure, se ci riflettiamo, non è difficile capire che l’abilità non è innata:
una persona acquisisce abilità in un’attività con il tempo e l’esperienza, a
meno che non abbia una particolare patologia che le preclude la pratica di
quella attività. Abilità viene da manualità, familiarità a relazionarsi con
qualche cosa. Certo i genitori oggi devono prestare attenzione all’uso delle
apparecchiature elettroniche da parte dei bambini, non demonizzandole, ma
semplicemente evitando che si sostituiscano completamente ai giochi manuali. La
dimestichezza con le dimensioni è essenziale per lo sviluppo cognitivo del
bambino: fare un puzzle sull’iPad, per esempio, richiede solo abilità di
trascinamento, mentre è importante l’azione di prendere le tessere in mano e
girarle fino a quando non si trova l’incastro giusto. L’iPad però può essere
usato con grande profitto per seguire i tutorial sul montaggio dei trenini o la
costruzione di una pista, per esempio, e diventa un mezzo formidabile per
mettere insieme grandi e piccini nelle gare di abilità, fino all’età in cui si
tratta di capire dove posizionare un rettilineo, piuttosto che una curva per
vedere se è funzionale al percorso del trenino. Ma questo interviene in un
secondo momento, e l’adulto deve capirlo, anziché affrettarsi a imporre la sua
capacità di dimensionare la complessità dei progetti e spingersi a voler
costruire una pista di volo con atterraggio e decollo. Deve tenere conto della
differente manualità di ciascun bambino e del suo grado di esperienza, che
determina anche la fase cognitiva in cui si trova, per cui quella complessità è
assolutamente inconcepibile per lui.
Al
rammarico di alcuni insegnanti sulla mancanza di tempo per seguire ciascuno
nella sua particolarità, si aggiunge a volte la richiesta dei genitori di
ridurre la mole dei compiti a casa. Ma, da quanto lei sta affermando, sembra
che il dispositivo di educazione non richieda tanto tempo quanto maestri,
persone che s’impegnano con autorità e responsabilità...
Bisognerebbe
trovare un modo perché le famiglie introducessero il gioco nello svolgimento
dei compiti a casa. Anche se mi rendo conto che l’apprendimento è una cosa
seria. Tuttavia, come per ciascuna attività, la leggerezza lo renderebbe meno
pesante e più divertente.