L'ALLEANZA, LO SCAMBIO, L'INVENZIONE
Un tassello importante per la salute dell’impresa oggi più
che mai è costituito dalla formazione dei collaboratori, ma quanto è cambiato
il valore della formazione dagli anni settanta a oggi in Italia?
Da qualche anno nelle
pagine dei quotidiani si legge spesso dell’importanza delle competenze
tecniche, ma ai più sfugge che quelle competenze non indicano solo la
formazione utile a svolgere un lavoro specifico all’interno dell’azienda, ma
possono diventare anche un elemento di contrattazione da far valere nel mercato
del lavoro. A Bologna, per esempio, fra gli anni settanta e ottanta, gli operai
più qualificati erano talmente stimati per le competenze acquisite durante la
loro prima formazione che potevano quasi scegliere in quale azienda lavorare.
Ciascun giovane era deciso a formarsi in aziende qualificate, che, a loro
volta, si contendevano gli operai più bravi al momento dell’assunzione, contrattando
direttamente con loro lo stipendio rapportato alle competenze acquisite. Oggi
le cose sono molto cambiate al punto che, con l’avvento delle rappresentanze
sindacali di categoria, ciascuna contrattazione è svolta secondo criteri
standard e la formazione spesso è motivata da fini burocratici piuttosto che da
una sana ambizione del singolo. La retribuzione è uguale per tutti, bravi e
meno bravi, ed è constatabile un generale appiattimento nella formazione. Può
capitare di sentirsi chiedere a che serve essere più bravi, se poi il
riconoscimento economico è uguale a quello di altri colleghi meno qualificati.
E così, anche quando le imprese più virtuose s’impegnano a fornire una
formazione qualificata, è inevitabile constatare lo scarso interesse dei collaboratori.
Sarebbe importante, invece, soprattutto oggi, poter riconoscere lo stipendio
maggiorato ai dipendenti più qualificati.
Un altro aspetto
trascurato dai più riguarda il fatto che la formazione tecnica è connessa con
quella culturale. Con lo scambio d’informazioni tecniche, infatti, avviene
anche uno scambio culturale in cui sono diversi gli elementi che entrano in
gioco. A Bologna sono tante le aziende dirette da persone che prima di divenire
imprenditori erano dipendenti, specialmente nell’ambito della metalmeccanica.
La storia delle aziende del settore dimostra come abbiamo avuto imprese che
sono state vere e proprie fucine di talenti imprenditoriali. Così è avvenuto
anche nell’azienda meccanica in cui ho incominciato la mia formazione. Era una
piccola impresa con venticinque operai verso i quali il titolare, Amleto Rossi,
riusciva a trasmettere l’importanza di imparare e di valorizzare chi lavorava
meglio. Con lui si poteva discutere di ciascun aspetto in modo sempre
stimolante perché non offriva facili soluzioni, costringendoci a fare ipotesi
pragmatiche. Molti dei collaboratori di quell’azienda dopo quell’esperienza
hanno costituito a loro volta altre imprese. Il modo in cui ci siamo formati è
stato eccezionale perché c’era un continuo scambio di informazioni attraverso
la stima fra le persone, a conferma che la formazione più efficace spesso non
deriva da corsi di aggiornamento standardizzati. Negli ultimi anni la tendenza
è stata quella di burocratizzare la comunicazione e la formazione attraverso
specifici intermediari al fine di evitare accordi fra i singoli che potevano
favorire tornaconti personali. Le condizioni lavorative e economiche in cui si
trova oggi l’Italia non sono solo l’effetto della crisi finanziaria che ha
colpito l’Occidente, ma soprattutto il risultato dell’abbandono di questa
cultura.
La salute dell’impresa condiziona però anche la salute del
territorio in cui opera…
Quando le persone si
abituano a scambiare informazioni tecniche imparano anche a scambiare altre
informazioni di natura culturale. Ribadisco questa precisazione perché qualcuno
pensa ancora che lo sviluppo della tecnologia, per esempio, porti le persone a
isolarsi, ma non è così. Il cervello non funziona in modo automatico, per cui
dopo aver ricevuto un’informazione tecnica si spegne, al contrario, è in
continua elaborazione.
Se guardiamo il rapporto
tra le aziende e gli uffici acquisti dei committenti, per esempio, ci
accorgiamo che oggi vige un sistema di comunicazione burocratizzato che
impedisce l’incontro e lo scambio di informazioni non necessariamente connesse
al contesto lavorativo, mentre una volta si potevano intessere rapporti di
stima e amicizia. Credo che questo approccio sia volutamente evitato nel timore
che si possano scambiare informazioni non legate esclusivamente all’aspetto
commerciale. Certe teorie commerciali riferiscono che il rapporto umano in
questi ambiti deteriorerebbe il rapporto commerciale.
Nel mio mestiere, invece,
la difficoltà maggiore riguarda proprio la comunicazione con i clienti: si
parla sempre con persone diverse preposte a svolgere la stessa mansione. In
altre parole, la burocrazia favorisce gli automaticismi e l’assenza d’invenzione.
Nelle banche, per esempio, è stata attuata questa politica. Una volta il
direttore di banca conosceva l’imprenditore a cui faceva credito, lo andava a
trovare due, tre volte nell’anno e discuteva con lui dei progetti dell’azienda.
Oggi invece quello che conta è il rating, come se fosse l’unico indicatore del
valore di un’impresa. La capacità dell’imprenditore non viene minimamente
considerata, anche perché non lo si interpella rispetto al suo progetto e al
suo programma.
Occorrerebbe avviare un secondo rinascimento…
Infatti,
occorrerebbe favorire un contesto formativo in cui le persone parlino tra loro
e questo scambio porti a nuove invenzioni e alla costruzione di alleanze. La
burocratizzazione dei rapporti fra i collaboratori non giova, non solo all’azienda
ma anche alla società nella sua interezza, favorendo contrapposizioni a seconda
del gruppo o della categoria in cui si è collocati burocraticamente. È questa
la fortuna dell’ampia categoria dei consulenti, che, nella maggior parte dei
casi sarebbero utili a dirimere le controversie interne, dicendo al lavoratore
cosa fare, ma possono costituire un freno importante alle sue ambizioni. Penso
invece che nessuno possa delegare la qualificazione della propria esperienza
perché la qualità di un’impresa come di ciascuno dipende dall’esigenza di
confrontarsi con l’eccellenza e non con parametri standard. Le più importanti
invenzioni sono avvenute per via di sperimentazione, oltre gli standard, e
secondo logiche non conformiste. Questa è stata la scuola delle imprese che
hanno reso grande l’Italia nel mondo.