L'AUTORITÀ E LA RESPONSABILITÀ DEL LEADER
Oltre a essere maestro di vita
per i suoi collaboratori – prima nell’impresa di famiglia (Alcide Stabellini
Srl) e poi anche in quella da lei fondata (Edilteco SpA) –, lo è stato per i
bambini a cui ha insegnato per ventun anni nelle scuole elementari. Una vera e
propria integrazione fra scuola e impresa…
Come dicevo nell’intervista pubblicata sul numero
precedente della rivista, l’esperienza di impresa aiuta ad acquisire elasticità
nell’attività didattica, mentre un insegnante che si dedica esclusivamente al
proprio mestiere tende a essere rigido, a prendere i programmi e le regole alla
lettera, senza pensare che i bambini sono gli uomini e le donne di domani,
quindi hanno bisogno di acquisire gli strumenti di base per riuscire ad
affrontare le difficoltà della vita, anziché limitarsi al mero apprendimento di
concetti e nozioni.
Riporto spesso come esempio il
mio primo incarico di ruolo, dopo varie esperienze di supplenza, che si svolse
in una scuola di montagna, a Rimessa di Riolunato, dove mi affidarono una
classe di otto bambini – due in prima, uno in seconda, uno in terza, due in
quarta e due in quinta – e fu una sfida interessante, perché dovevo portare
avanti quattro diversi programmi simultaneamente.
Proprio come un capitano di
azienda. Può darci testimonianza di questa esperienza?
È stato difficile, ma spesso
riuscivo a coinvolgere i più grandicelli, responsabilizzandoli nei confronti
dei più piccoli.
In realtà, questa esperienza per
me è emblematica dell’approccio che poi ho adottato negli anni successivi in
vari ambiti: dalla scuola all’impresa al servizio militare, in cui ero
ufficiale di complemento e dovevo gestire una brigata alle prese con operazioni
di artiglieria corazzata. È l’approccio che ritengo più efficace quando si deve
dirigere una squadra, quello che comporta uno statuto di autorità e
responsabilità del leader, ma senza severità e autoritarismo. Non sono
d’accordo con chi crede che sia utile eliminare l’autorità e le regole per
favorire la creatività e stimolare la fantasia dei bambini o dei componenti di
una squadra, anzi, è sempre la necessità ad aguzzare l’ingegno: se tutto è
facile, se tutto è possibile, nessuno prende iniziative interessanti e si crea
solo confusione. Ma l’autorità non può essere circoscritta al compito di far
rispettare le regole: come il padre in una famiglia, il leader è chi dà fiducia
ai suoi collaboratori e il maestro è chi scommette sull’intelligenza dei suoi
alunni. La mia classe è sempre stata una famiglia allargata, una grande
famiglia, dove ciascuno poteva raccontare la propria esperienza: l’ascolto dava
loro la sicurezza di essere capiti e di avere l’opportunità di valorizzare i
propri talenti. Ho sempre cercato di coinvolgere i miei alunni partendo da
spunti della loro vita, da cose che li interessavano da vicino nel loro fare
quotidiano: a seconda se vivevano in campagna o in paese, si parlava di
argomenti inerenti alla vita nei campi piuttosto che alle attività artigianali.
I programmi ministeriali rappresentavano una traccia da seguire, ma cercavo di
renderli interessanti con esempi e paragoni tratti dalle loro esperienze
personali. La vita familiare era il loro mondo e a scuola dovevo tenere conto
dei problemi che vivevano a casa, altrimenti non potevo aspettarmi l’attenzione
che occorreva per trasmettere loro nozioni complesse.
È un’annotazione importante, che
ci fa riflettere intorno al dilagare di diagnosi di ADHD, il cosiddetto
Disturbo di Attenzione e Deficit da Iperattività. Forse dobbiamo interrogarci
sullo statuto del maestro come interlocutore per il viaggio della vita degli
alunni, anziché come controllore del loro sapere…
Credo che la scuola elementare
debba dare i fondamenti di una buona istruzione, ma per i bambini di questa età
è importante che la cultura diventi interesse e passione: se un maestro riesce
in questo intento, i suoi alunni saranno disposti a studiare e a imparare per
tutta la vita. Un insegnante che non riesce a farsi seguire deve chiedersi se
per caso non è stato troppo permissivo: io credo che i bambini debbano imparare
a sentirsi dire di “no”, perché non esiste nella vita una condizione ideale in
cui si possa dire e fare ciò che si vuole…
Niccolò Machiavelli diceva che
chi fa quello che vuole è pazzo…
Lo spirito d’impresa che
respiravo nella mia famiglia, grazie all’impegno quotidiano, costante, tenace e
straordinario di mio padre e di mia madre, mi ha aiutato a insegnare ai bambini
che un giorno avrebbero partecipato anche loro alla vita della società e che
quindi dovevano imparare ad avere iniziativa personale e direzione del loro lavoro
verso la qualità. Dovevano capire che solo così potevano raggiungere buoni
risultati. Ho sempre cercato di insegnare che la perfezione non si ottiene
subito, ma solo dopo molti tentativi, e l’apprendimento è una fase della vita
che non si conclude con la scuola, perché in realtà non si finisce mai
d’imparare. Ma non avrei potuto svolgere il mio compito educativo, se non
avessi prestato ascolto e attenzione alle questioni che ciascuno di essi mi
poneva in modo differente. Solo così sono riuscito sempre a coinvolgerli e a
divenire per loro un interlocutore fidato.