LE DIAGNOSI CONTRO I BAMBINI
Modena, dicembre 2014. Un educatore – interpellato dai
genitori di una bambina con difficoltà nell’apprendimento della lettura in
seconda elementare –, ancora prima d’incontrare la bambina, sostiene la
necessità di rivolgersi a un operatore del Servizio Sanitario Nazionale per porre un’eventuale diagnosi di dislessia, senza cui egli
non potrebbe – afferma – “neppure incominciare
a prendere in considerazione il caso”. I genitori speravano d’incontrare una
persona in grado di fornire strumenti che aiutassero la bambina a intraprendere
la bellissima avventura delle lettere. Ma come può una diagnosi porsi come
premessa e, addirittura, come condizione del viaggio intellettuale?
E come possono gli educatori instaurare dispositivi di parola
con uno di quei milioni di bambini che hanno ricevuto una diagnosi di ADHD
(Attention Deficit Hyperactivity Disorder ovvero Disturbo da Deficit di
Attenzione/Iperattività), se ripetono che la prima cosa da fare è “contenerli”
quando si agitano troppo, per evitare le distrazioni e fare in modo che si
applichino nello svolgimento dei compiti? La delega dell’autorità e della
responsabilità impedisce all’educatore d’inventare attività che possano
coinvolgere il bambino, che possano suscitare il suo interesse, in modo da
valorizzare i suoi talenti, anziché mortificarli, attraverso la contenzione.
Chi ha insegnato nelle scuole elementari per oltre vent’anni, come Carlo
Stabellini, di cui pubblichiamo la testimonianza in questo numero, sa benissimo
che il maestro viene seguito quando, oltre a esigere (anche alzando il tono di
voce se occorre) che i bambini si attengano alle norme e alle regole, trova i motivi
perché essi prestino attenzione. Solo così, il maestro lancia le sue esche per
un gioco che i bambini non vorrebbero smettere mai, anziché non vedere l’ora
che arrivi la fine della lezione. Gli allievi si accorgono dell’investimento
assoluto del maestro nel dispositivo educativo, del suo sforzo per coinvolgere
ciascuno secondo la particolarità e la specificità che lo concerne, pur
mantenendo l’impegno per lo svolgimento dei programmi ministeriali. Un maestro
così non teme la presenza di allievi iperattivi, anzi, al contrario si
preoccupa se qualcuno rimane timidamente immobile in un cantuccio, non teme di
non essere seguito: come il professore del film L’attimo fuggente, John
Keating, sa che molti dei suoi studenti saliranno sui banchi per lui, se ce ne
sarà bisogno, è un capitano che, come diceva Machiavelli, riesce a mantenere
fedele l’esercito perché non si stanca di proporre sempre nuove idee.
Chi oggi è capitano, nella scuola, nella famiglia e
nell’impresa? Non certo chi fa appello alla genetica per cercare la causa di un
presunto disturbo mentale, come i genitori soddisfatti della ricerca dell’Università
di Cardiff, che nel 2010 annunciava la presunta scoperta di “differenze
riscontrabili nel cervello dei bambini affetti da ADHD e provocate da segmenti
del Dna duplicati o mancanti”, perché finalmente potevano escludere una loro
responsabilità nel cosiddetto disturbo. E che dire dei profitti astronomici che
i membri dei comitati che redigono il DSM (il manuale diagnostico e statistico
dei disturbi mentali) traggono dai risultati delle loro ricerche, che
supportano l’uso di farmaci come il Ritalin? Che dire, dopo che il settimanale
tedesco “Der Spiegel” ha citato il 2
febbraio 2012 lo psichiatra Leon Eisenberg, il “padre scientifico dell’ADHD”,
che nella sua ultima intervista l’ha definito “un ottimo esempio di malattia
fittizia”? Chi ha tratto le conseguenze da questa inaspettata confessione, che
arriva dopo quarant’anni in cui la “malattia” di Eisenberg ha infestato i manuali diagnostici e statistici, e l’uso di
farmaci per l’ADHD nella sola Germania è aumentato in soli diciotto anni da 34
kg (nel 1993) a un record di oltre 1760 kg (nel 2011)?
A parte gli ormai risaputi e conclamati effetti disastrosi di
questi psicofarmaci sullo sviluppo fisico, oltre che psichico, dei bambini,
come possiamo immaginare di formare le migliaia di nuovi imprenditori di cui il
nostro paese avrebbe bisogno, se vengono fin da piccoli sedati e se gli adulti
li introducono in una logica della delega dell’autorità e della responsabilità
al farmaco?
Nella cosiddetta società del benessere, la qualità della vita
si misura sulla base della possibilità di stare bene. Ma la salute non sta
nell’assenza di problemi, disagi, difficoltà e tutto ciò che impedisce di stare
bene. La salute è l’istanza di qualità della vita e si acquisisce facendo, non
c’è prima del fare e non è una condizione per fare, come crede chi rimanda il
fare al tempo in cui sarà guarito. La vita si qualifica parlando, facendo e
scrivendo, instaurando dispositivi in direzione della qualità. La vita è
intellettuale e anche la salute, come istanza di qualità della vita, è
intellettuale, non mentale. Non c’è chi possa essere definito malato mentale:
la malattia mentale non esiste, come diceva il grande psichiatra Thomas Szasz,
autore del libro Il mito della malattia mentale, che negli anni sessanta
ha ispirato molti movimenti contro gli abusi della psichiatria in vari paesi.
Nessuna diagnosi di disturbo mentale, più o meno grave, può
contribuire alla qualità della vita di chi la riceve. Un adulto può tuttavia
non accettarla, lottare per dissipare il pregiudizio psichiatrico da cui tale
diagnosi è scaturita e proseguire lungo il progetto e il programma di vita: è
il caso del presidente della Corte di Appello di Dresda, Daniel Gottlob
Schreber, che nei primi anni del 1900 scrisse le Memorie di un malato di
nervi, per riuscire a dimostrare che le proprie fantasie, considerate
deliranti dagli psichiatri, non interferivano affatto con lo svolgimento della
propria attività istituzionale. Un adulto può combattere contro eventuali
interessi economici alla base di un tentativo d’interdizione. Ma un bambino
come può difendersi quando persino i genitori temono che qualcosa non vada come
dovrebbe, perché si agita troppo e senza motivo o non sa leggere o scrivere o
far di conto come i suoi coetanei? Allora, si rivolgono al neurologo, allo
psichiatra o allo psicologo nell’intento di aiutarlo o magari solo per
accertarsi che il bambino non sia malato, ma intanto lo spauracchio del disturbo
mentale si è affacciato nella loro casa e ha gettato un’ombra che difficilmente
li abbandonerà. Per fortuna alcuni genitori rifiutano di considerare malato il
loro bambino anche se ha il morbo di Down, per esempio, perché intendono che
egli è un individuo, con un nome e un cognome, non “un Down”, ma un bambino che
diventerà un adulto e potrà instaurare dispositivi di riuscita, coltivando
l’invenzione e l’arte e approdando alla salute, come ciascuno, se trova
interlocutori lungo il suo itinerario. Gli esempi di attività gestite da ex
bambini cosiddetti Down incominciano a essere frequenti anche nel nostro paese.
Purtroppo non sono tanti, come non sono molti i genitori e gli insegnanti che
adottano un approccio intellettuale nell’educazione, anzi, sempre più spesso
prevale la tendenza alla medicalizzazione della società e della scuola, la
tendenza alla classificazione, a scapito della singolarità, della particolarità
e della specificità; sempre più spesso nelle scuole si tralascia il lavoro di
analisi e si ricorre alla via facile della diagnosi, rispondente a schemi
prestabiliti, che permette di ottenere una certificazione del cosiddetto
disturbo e, di conseguenza, di accedere agli strumenti “dispensativi e
compensativi” messi a disposizione dal legislatore per “assicurare eguali
opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale”, come
recita la legge 170 (8 ottobre 2010) a proposito dei cosiddetti DSA (Disturbi
Specifici di Apprendimento).
Tutto ciò è studiato nell’intento di facilitare l’apprendimento.
Ma la via del secondo rinascimento, di cui l’Italia e il pianeta hanno bisogno,
non è la via della facilità, della facoltà. Nessuna facoltà, bensì la
difficoltà, quando le cose incominciano – anche per i bambini – e richiedono
uno sforzo. Mentre la semplicità non è la facilità, è una conquista, e richiede
l’ingegno, sulla via dell’industria, nell’accezione adottata da Niccolò
Machiavelli nel
suo libro Vita di Castruccio Castracani da Lucca, in cui Castruccio dice
al giovane Guinigi: “Non dei pertanto sperare in alcuna cosa, fuora che nella
tua industria”.